IO SONO IL MIO TAMBURO E MI SUONO AL RITMO MIO
Quadrilogica di Antonio Rezza e Flavia Mastrella all'Out Off per conoscere il loro teatro surreale dal 9 ottobre al 4 novembre e a Roma con Bahamut dal 27 novembre al 23 dicembre.
di Damiano Cristilli
Pitecus racconta storie di tanti personaggi, è uno spettacolo che analizza il rapporto tra l'uomo e le sue perversioni: laureati, sfaticati, giovani e disperati alla ricerca di un’occasione che ne accresca le tasche e la fama, pluridecorati alla moralità che speculano sulle disgrazie altrui, vecchi in cerca di un'identità che li aiuti ad ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzi loro, persone che tirano avanti una vita ormai abitudinaria, individui che vendono il proprio corpo in cambio di un benessere puramente materiale, esseri che viaggiano per arricchire competenze culturali esteriori e superficiali.

Io cresce inventando lavatrici e strumenti di quieto vivere.
Il radiologo spossato avvolge un neonato con l'affetto della madre, un individualista piega lenzuola a tutto spiano fino ad unirsi ad esse per lasciare tracce di seme sul tessuto del lavoro.
Tre persone vegliano il sonno a chi lo sta facendo mentre il piegatore di lenzuola, appesantito dal suo stesso seme, scivola sotto l'acqua che si fa doccia e dolce zampillare.
Io mangia la vita bevendo acqua rotta che è portavoce dell'amaro nascere, ogni tanto un torneo, un uomo che si cimenta in imprese impossibili ma rese rare dalla sua enfasi, un ufo giallo scrutante esseri e parole, un visionario vede vulva nelle orecchie altrui.

Anche questo allestimento scenico si avvale dei quadri di scena o teli intesi come arte.
Le scene sono coinvolte completamente nell'azione drammaturgica, la struttura è di metallo sottile, sostiene i teli che, disposti in vari piani, risentono del movimento del corpo...
Tutto barcolla.

Il colore dei quadri si espande, il metallo si insinua nella stoffa, i cambiamenti di scena frequenti rinnovano in continuazione l'andatura cromatica. Il giallo, il rosso, il blu di vari tessuti e intensità rispondono in modo diverso alla luce che ne esalta inoltre le diversità della trama.

Fotofinish è la storia di un uomo che si fotografa per sentirsi meno solo.
Apre così uno studio dove si immortala fingendosi ora cliente ora fotografo esperto.
E grazie alla moltiplicazione della sua immagine arriva a credersi un politico che parla alla folla. Una folla che non c’è. Ma che lo galvanizza come tutte le cose che non avremo mai.
Tra un comizio e l’altro arriva a proclamarsi costruttore di ospedali ambulanti che si spostano direttamente nelle case dei malati.
Ed all’interno di questi ospedali c’è sempre lui: sotto le vesti del primario, sotto quelle del degente e sotto quelle delle suore cappellone che sostituiscono la medicina con gli strumenti della fede.


Ben presto, grazie all’inflazione della sua immagine, è convinto di non essere più solo .
Ipotizza incendi e sciagure, ipotizza uscite di sicurezza per portare in salvo lo spettatore medio che lui stesso rappresenta.
Nel pieno del suo delirio auto presenzialista arriva a farsi donna con tutta la sua nudità camuffata; e a farsi uomo, pensandosi ora l’una ed ora l’altro, immaginando di uscirsi insieme per rientrarsi accanto.
E solo quando è costretto a mettere un cane a difesa della sua abitazione capisce di esser solo e di essere lui quel cane posto a tutela della proprietà.

Ma con un colpo di coda inaspettato torna da cane a politico ed accusa gli elettori di non aver capito. Di non aver capito che nulla è mai esistito. L’unica cosa che esisteva era la sua solitudine.
Che non può essere fotografata perché la solitudine è l’assenza di chi non ti è vicino
.
Bahamut invece inizia con un uomo steso che fa le veci del tiranno.
E cede il passo all’atleta di Dio che volteggia sulle sbarre con le braccia della disperazione.
E poi un nano, più basso delle sue ambizioni, che usa lo scuro per fare, e la luce per dire.
E quindi la realtà figurata delle vittime del povero consumo, connotate da assenza di astrazione, con il padrone unto dall’autorità del denaro.
Ma si affaccia Bahamut, l’essere supremo, che dopo breve apparizione si sottrae al tempo e al giudizio.
Mentre la merce si mescola a corpi fatti a pezzi.
Pezzi di uomo ancora da nascere ma già immolati alla meschinità costituita.
E un amico che parla senza voce e sente senza orecchie.

Ma il senso della vita si incontra solo all’infinito dove l’uomo fa la fine del capretto da sgozzare.
Brufoli e depressioni tristemente accomunati con le bibite a ghiacciare le parole nella gola.
Ma la corsa al vestire il corpo nudo e verme non da tregua all’uomo pellegrino, mentre le braccia del padrone, camuffate da proletariato, saltano al ritmo di una danza di classe.

E il gran finale, con i personaggi a fare la figura degli sguatteri mentre l’autore che li muove è il gerarca dalla lingua biforcuta.
L’ inserimento delle urla come suono costituisce il nuovo orecchio di uno spettacolo fatto per i soli occhi.
Privilegio di chi vede è il non capire ciò che un altro fa. Le parole aiutano la miseria della media comprensione.
Le urla fanno la musica senza le mani. La gola non si suona con le dita a meno che non ci si voglia soffocare. E nessun urlo può essere raggiunto dalle mani, tirato fuori e mostrato a chi ci guarda.

Insomma con le urla ci si accorcia il patibolo. Ma questo sembra un atteggiamento pessimista di chi non ama la vita a sufficienza. E invece no, io amo fare quello che non si può comprendere.
In questa opera ultima le urla unificano le parole intere: le urla sono fatte solo di vocali allungate che cingono la preda del concetto e la mandano a morire nella testa di chi ignaro si attarda a capire.

Tratto da www.rezzamastrella.com


(16/10/2007)