Al Gore e l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change, l’organismo Onu per lo studio dei cambiamenti climatici) si dividono il premio Nobel per la pace 2007, “per i loro sforzi per costruire e diffondere una conoscenza maggiore sui cambiamenti climatici provocati dall'uomo e per porre le basi per le misure necessarie a contrastare tali cambiamenti”.
Un Nobel che, oltre al riconoscimento per i passati meriti, significa una potente investitura politica, e ancor più culturale, un segnale, un’opinione sul futuro. Il Comitato norvegese per il Nobel ha scelto di premiare un ecologista (ed ex politico riformista, ex vicepresidente degli Stati Uniti, ed ex giornalista militare), che ha saputo globalizzare il messaggio ambientalista, rendendolo ineludibile per governi, società civile e aziende. Assieme a lui, l’organismo Onu che studia la crisi ambientale: la componente divulgativa e quella scientifica della battaglia anti-inquinamento.
Anche se il premio Nobel per la pace è uscito ormai da tempo dal solco specifico dell’attivismo pacifista, è raro che venga assegnato in ambiti autonomi e conclusi come quello dell’ecologia. Persino lo scorso anno, quando era stato premiato l’economista Muhammad Yunus, inventore del microcredito e della Grameen Bank, il nesso con l’impegno per la pace era più chiaro: attraverso un’iniziativa economica si contribuiva a disinnescare tensioni e conflitti sociali derivanti dalla povertà.
L’impegno ecologista, invece, appare ancora più specifico, apparentemente slegato dall’ispirazione originaria del premio pacifista. Certo, nemmeno serve la teoria del caos per capire il legame che esiste fra impegno ambientalista e pace: potrà essere fin troppo evidente in futuro, ma lo è anche nell’immediato, come nel caso dei conflitti dovuti alla desertificazione, o del rischio imminente delle guerre per l’acqua. Ma l’ecologismo è, nell’immaginario, uno scenario preciso e concluso, retto dall’impegno per l’ambiente nel suo insieme e per le energie rinnovabili. E l’ecologia è assurta, nella visione del comitato per il Nobel, a nuova priorità culturale planetaria.
Un secondo aspetto lo sottolinea: la tempestività del premio. Da decenni, come avviene nella storia di parecchi altri riconoscimenti pubblici, la storia del Nobel è stata anche la storia delle attese frustrate o ricompensate di personaggi in odore di riconoscimento e di opinioni pubbliche partecipi. Al Gore è un caso raro: tanto è recente la visibilità globale del suo impegno ecologista (2006: uscita del documentario An Inconvenient Truth, preceduto da un libro dallo stesso titolo; 2007: organizzazione del concerto planetario Live Earth), tanto immediata è stata la sua premiazione. Quest’urgenza è un attestato autorevole, l’ennesimo, del fatto che l’impegno ambientalista non è più differibile.
Ciò che ha fatto Al Gore è cercare di spingere all’azione, passando attraverso la presa di coscienza. E’ stato capace di far emergere il tema ambientale dalle nicchie impegnate e portarlo all’attenzione dell’opinione pubblica generalizzata. Ma non c’è niente da fare: nessuno riciclerà la propria lattina, se non si sente profondamente persuaso dell’importanza di farlo. E Al Gore, cittadino illuminato e influente della nazione che ha spettacolarizzato la comunicazione, ha sfruttato queste doti diffondendo per il pianeta due dei messaggi ambientalisti più imponenti e persuasivi della storia: un film e un concerto. Un’opera di sensibilizzazione non esente da qualche eccesso o da un certo personalismo, ma anche un esempio inedito di comunicazione sociale di assoluto successo.
E’ figlio di questo tempo Al Gore: (ex) politico, grande comunicatore, uomo di potere anche, ma che ha già dichiarato più e più volte che non si ricandiderà alla Casa Bianca sfruttando la recente popolarità, e ha annunciato che devolverà i soldi del premio. Ed è proprio questo a cui non siamo abituati: a un uomo così “mainstream” nei modi e tanto assennato nei contenuti, a un filantropo in giacca e cravatta che sparge proclami scomodi che riguardano il bene comune.
E’ la sovversione di un messaggio ecologicamente (ed economicamente) corretto, è la via maestra del capitalismo selvaggio che si ravvede e vuole medicare il pianeta. Ma proprio per questo, perché sa parlare – umanamente e attraverso film e concerti – il linguaggio comune, costituisce forse la più immediata speranza di un cambiamento.
Dove non sono arrivati in decenni i messaggi allarmati, ma freddamente testuali, degli scienziati che hanno studiato l’ambiente, dove non è giunta la tiepida comunicazione istituzionale, è arrivato il filantropico ciclone comunicativo di Al Gore. Che dopo essere stato politico e avere parlato a lungo con politici e imprese, ha preferito rivolgersi in primis ai cittadini, a ogni persona scuotendola sul suo divano.
E’ un’occasione storica rara, che si dispiega attraverso un personaggio non comune, un uomo dell’establishment che ha criticato il gioco e sa come cambiarne le regole. L’Ipcc svolge un lavoro scientifico fondamentale, ma il suo lavoro è inscindibile dall’impegno divulgativo di Al Gore. La Fondazione Nobel ha colto l’onda lunga del suo successo e lo ha rilanciato, spedendo al mondo un messaggio fortemente politico.
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