Folla, voci straniere, immagini, musica, e poi ancora folla che commenta, beve e ride, in teatro, sul sagrato, nel parco. Dodicesima edizione del Milano Film Festival, il rito si consolida. E cresce, coinvolgendo sempre più registi e pubblico, più o meno addetto ai lavori. Nel 1996, all’esordio, in concorso c’erano sei film, tutti italiani. Nel 2007 siamo arrivati a sessanta (di cui tre italiani), selezionati da 2.590 opere visionate.
Cresce la quantità e, insieme, la qualità. Rispetto a qualche anno fa il livello medio di ciascun gruppo di corti – cinque o sei ogni tornata, per un’ora e mezza circa – è cresciuto. Al punto che diventa sempre più difficile premiare i migliori e si è costretti a diverse menzioni speciali. Proponiamo, allora, una panoramica su alcuni dei migliori lavori dell’edizione appena conclusa.
La vittoria è andata a Just like the movies, un corto austriaco di 21 minuti che scorrono con rapidità. E’ un lavoro che si regge quasi esclusivamente sul montaggio: Michal Kosakowski ha raccontato l’11 settembre 2001 aggregando esclusivamente spezzoni di decine di action-movie catastrofici americani. Deep Impact, Independence day, Die Hard 1, 2 e 3, per intenderci, e quel vasto insieme di film cui la nostra memoria ha attinto sei anni fa, mentre guardavamo sbalorditi i telegiornali. 21 minuti di saliscendi commoventi, spettacolari e anche ironici, sulla scia della trascinante colonna sonora di Paolo Marzocchi, che mima al pianoforte le vecchie musiche dei film muti: qui parlano le immagini.
Un corto notevole, non il migliore probabilmente, ma un pezzo di bravura provvisto di un’anima. E che al Milano Film Festival si premi anche il virtuosismo lo ricorda la menzione a Energie!, corto tedesco di cinque minuti, consistente in “una pellicola fotografica esposta a una scarica di circa 30.000 volt e successivamente rieditata per dare vita a nuovi sistemi visivi di organizzazione degli elettroni”. Il risultato è un flusso di energia, graficamente spettacolare, visualizzato in bianco su nero per cinque minuti. Niente narrazione, troppo lungo e dopo un po’ fanno male gli occhi: il pubblico ha fischiato, la critica ha premiato; il festival è bello perché è controverso.
Agli antipodi rispetto a Energie! è Tolya, ottimo corto israeliano, girato con semplicità assoluta. Tolya è un anziano sdentato, un immigrato russo che, nel giorno della festa della donna, come tutti i suoi colleghi muratori, vorrebbe chiamare la moglie e farle gli auguri, ma dalla bocca gli escono solo suoni incomprensibili. Questa diviene la storia degli espedienti che Tolya trova per comunicare il suo amore al telefono, senza riuscire a parlare.
E ancora si sono visti un commovente lavoro francese su Hiroshima, Nijuman no borei, realizzato con musica, parole e fotografie; alcuni esercizi registici di americani e inglesi di ottimo effetto, come per Soft, in cui un figlio dà una lezione di coraggio al padre; o John and Karen, corto animato in cui un orso polare e una minuscola pinguina chiariscono il loro ultimo litigio amoroso. Come a dire quantità, qualità e varietà.
Tirando le somme, si è premiato di tutto: il film spettacolare, bilanciato da quello sentimentale; si è applaudito il cartone animato e il corto impegnato. Il paniere è stato colmato con ogni genere di lavoro.
Anche il concorso dei lunghi ha visto film notevoli, come nel caso del vincitore, Reprise del norvegese Joachim Trier, che racconta la storia dell’amicizia fra Erik e Phillip, entrambi aspiranti scrittori, legati da un complesso rapporto in bilico fra amicizia pura, affinità sentimentale inespressa e comunanza artistica profonda. Phillip avrà successo per primo, ma finirà in una clinica psichiatrica e cucirà un rapporto salvifico e morboso con la bella Kari, mentre Erik, costretto a trasferirsi fuori città, avrà successo come scrittore. Un intreccio complesso, per un ottimo film indipendente che, oltre che di una sceneggiatura sofisticata, beneficia di una regia autarchica, più vicina agli esperimenti di mezzo secolo fa che alle pellicole mainstream di oggi.
Ecco, proprio questo, a posteriori, è sembrato il luogo in cui si concretizzava il successo dei lavori presentati al Milano Film Festival: al crocevia fra sceneggiatura, regia ed effetti speciali, fra tecnica e cuore del racconto. E’ un discorso scontato quando si parla di arte, ma non lo è poi tanto nella bottega di chi si appresta a fare cinema: anche molti corti del festival sembravano sbilanciati tra forma e contenuto, privilegiando ora una ora l’altro. Invece, al di là della massima libertà espressiva che concede la forma-cortometraggio (e non solo), ciò che spesso manca a chi comincia è la conoscenza tecnica (so cosa dire, ma non come dirlo), oppure la coscienza di cosa raccontare (non ti dico nulla, ma te lo dico benissimo). Il palco del Milano Film Festival, fra opere di ogni genere e provenienza, ha rilanciato la formula sperimentazione + equilibrio.
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