Lavoro. Cosa significa poi? Competenze, competitività, merito, titolo di studi, professionalità… Fabrizio Buratto – o Furbazo Attibrìo, come ama chiamarsi - se lo chiede, ma non riesce a darsi una risposta e ci racconta di come appare a un giovane di oggi l’universo lavorativo, quello senza raccomandazioni, quello dei mille curricula inviati alle agenzie interinali, quello che una volta finito “il progetto” torni dov’eri prima. Colloqui su colloqui davanti a signorine spigolose e occhialute che non hanno tempo da perdere nei particolari, serate stanche in treno per tornare a casa e risvegliarsi la mattina dopo con gli stessi interrogativi del giorno prima. Non è il terzo mondo, ma l’Italia immorale e corrotta che ci viene delicatamente passata sul ripiano della scrivania, e non senza una triste ironia di fondo.
Lui chi è? Un trentenne tipico, o almeno così si definisce. Dopo la laurea in Storia con una tesi su Fantozzi, prende i contatti con la realtà e sbatte il muso contro la frustrazione che i mille vicoli da percorrere per sentirsi parte del mondo-lavoro gli arrecano. È una questione di identità e Buratto, cresciuto col mito di Paolo Villaggio con la sigla di Capitan Harlock per sottofondo, non riesce ad ammettere che esista un posto dove per gli altri siamo un pezzo di carta e nient’altro.
Allora sogna di riscrivere il suo curriculum vitae, e lo fa eccedendo finalmente in prolissità e specificando per ogni voce - compresi nome, cognome e segni particolari - il senso di quelle tracce che dagli altri individui lo contraddistinguono. L’idea è pirandelliana, ma lui la realizza, nelle pagine di questo libro, con l’ingenuità di un bambino seduto tra i banchi delle elementari e senza la vitalità che avrebbe questo, come chi non ha niente da perdere e niente da conquistare, con l’arrendevolezza di un roditore già caduto in trappola. È questo che di Buratto un po’ ci fa arrabbiare, il sottolineare lo squallore delle situazioni con quel sorrisetto tra le labbra di chi è già indifferente e avvezzo alle violenze psicologiche di un universo chiuso. Un rosso malpelo dei nostri tempi, potremmo azzardare.
Obiettore di coscienza, stagista, lavoratore a progetto, free-lance. Tra Genova, Alessandria e Milano, Buratto passa in rassegna le varie figure ricoperte nel corso della sua breve vita lavorativa - operatore video, giornalista, assistente universitario, fotografo di stampa locale – finendo per eleggersi portavoce di una generazione dal curriculum disomogeneo e atipico, costretta a barcamenarsi in una precarietà travestita da flessibilità.
Alla fine, portavoce o meno, la sorpresa è che Buratto non ci racconta nulla di nuovo ma una storia normale, come l’autore stesso la definisce, che pure normale non dovrebbe sembrarci. Niente più che una manciata di giornate appuntate bianco su nero con uno stile leggero ma disomogeneo e insofferente, forse anch’esso precario.
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