Michelangelo Antonioni si è spento in tranquillità, nella sua casa di Roma il 31 luglio scorso. Per una di quelle congiunture epocali, che è problematico chiamare “caso”, se n’è andato lo stesso giorno di Ingmar Bergman. Due maestri di un cinema rarefatto e profondo, che, al di fuori di qualsiasi retorica, oggi non si fa più. “Fare cinema” nel senso di “inventare” cinema: artigianato sperimentale in cui la tradizionale cassetta degli attrezzi veniva giocata in modo autonomo, in funzione della propria urgenza. Era cinema d’autore puro, che ha scavato un solco allora, ma non ha quasi lasciato eredi. Oggi in sala si vedono altre cose, siamo scesi dalle spalle dei giganti.
La vita di Antonioni, cominciata a Ferrara nel 1912, prende il largo lentamente, dentro un ambiente borghese e femminile, dal quale deriverà un filtro di lettura della realtà che sarà centrale nel suo cinema. Dopo la laurea in economia si interessa di teatro e di critica cinematografica; seguiranno le esperienze nella sceneggiatura con Rossellini, nel documentario, e come aiuto regista di Carnè prima e Lattuada poi.
Da qui ha inizio l’Antonioni che si conosce. Un narratore partecipe dell’animo umano, nelle sue varie forme di fragilità: individuale, di coppia e, in controluce, sociale. Il regista dell’incomunicabilità fra amanti, della crisi della borghesia post-bellica, appena nata e già svuotata della coscienza di sé e dell’altro. E’ ciò che si racconta, e soprattutto si vede, nella trilogia della “malattia dei sentimenti”, che comincia con la Sicilia aspra de L’avventura e prosegue negli alienati circoli alto-borghesi de La notte e L’eclisse. Ma Cronaca di un amore, il suo esordio del 1950, conteneva già quasi tutto.
Dopo questi successi Antonioni si apre a una dimensione internazionale e cerca di aggiornare la sua attitudine intimista e speculativa, seguendo un po’ meno la prima e un po’ più la seconda. Escono Blow up, Zabriskie Point e Professione: reporter. La virata è poco più che accennata: Antonioni non rinuncia alle sue visioni, alla precisione formale, alla suggestione degli scenari, e nemmeno alla ricerca fondamentale su uomo, donna e società.
A ogni nuovo film Antonioni ha diviso la critica – e, insieme, il pubblico – come pochi altri dei massimi registi. Il riconoscimento universale della sua opera è stata invariabilmente affiancato da convinte critiche. Il pubblico non gli perdonava i piani-sequenza, la lentezza proverbiale, la profondità psicologica quasi inattingibile; la critica lo ha tacciato a volte di manierismo e, quasi sempre, di trascuratezza nella dimensione narrativa e verbale delle sue opere.
I dialoghi dei personaggi sono il bersaglio grosso delle critiche. “Mi fanno male i capelli” disse serissima Monica Vitti in Deserto rosso, complice Tonino Guerra, storico paroliere di Antonioni. Ma se è legittima la dicotomia fra registi narrativi e registi visuali, non c’è altro che inserire Antonioni tra i capofila della seconda schiera e ammettere che la componente testuale gli era meno congeniale. Probabilmente gli interessava meno, se paragonata con la cura maniacale e, insieme, l’espressività istintiva delle sue immagini, nelle quali i personaggi sembrano spesso emanazione dell’ambiente, a instaurare nelle scene sottili sfumature di senso. Sono le atmosfere a reggere le storie.
L’ultima fase della carriera di Antonioni è stata per molti un calando, culminato con i discussi Al di là delle nuvole ed Eros (di cui diresse il primo episodio). L’ictus cerebrale che lo ha colpito negli anni ottanta, privandolo della parola, lo ha lasciato alle cure dell’ultima moglie Enrica Fico, ma ancora intenzionato a creare film (coadiuvato dall’amico Wim Wenders) e a dipingere.
“Non dite che sono intellettuale, sono solo intuitivo”, rispondeva a chi lo descriveva come freddo e razionale. Ciò che cercava di tradurre, come succedeva a Bergman, erano le sue personali e acute sensazioni sulla vita umana. Il cinema urgente che oggi ci manca, uno sforzo complesso e ricercato. E l’incomunicabilità che attanagliava i suoi personaggi probabilmente è la stessa contro cui, nei suoi film, combatteva.
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