PRIMAVERE A SARAJEVO
MONDI A CONFRONTO

Cronaca di una serata particolare: il documentario “Primavere a Sarajevo” all’”Isola del Cinema di Roma”, le manifestazioni culturali estive e le incogruenze del nostro Paese.
di Laura Bonaventura
Mercoledì sera, ore 22:00. Daniela Mazzoli, collaboratrice di Terranauta, viene a prendermi in macchina. La nostra destinazione è l’Isola Tiberina, la piccola isola sul Tevere che in estate si trasforma in cinema all’aperto, con bar, ristoranti e tappeti per passare la serata a chiacchierare in compagnia, alla luce delle candele, ascoltando il piacevole scroscio delle cascatelle che il fiume riversa lì accanto. Alle 23:30 vogliamo assistere alla proiezione del documentario “Primavere a Sarajevo” , di Daniel Tarozzi e Francesca Giomo, direttore e caporedattrice della nostra testata.

Tutto sembra andare per il meglio perché dopo un quarto d’ora siamo lì e cominciamo a cercare parcheggio. Giriamo, giriamo, giriamo e alle 23:00, dopo tre quarti d’ora di vane ricerche, Daniela mi lascia all’ingresso per fare i biglietti e continua a setacciare i tre quartieri confinanti, Trastevere, Testaccio e il vecchio Ghetto, nella speranza di trovare un posto. Il problema è che il centro di Roma in estate si trasforma in una grande manifestazione culturale all’aperto, attirando giovani e adulti da tutta la città, tanto che la folla è enorme. Ed è solo mercoledì.

Alle 23:40 Daniela è alla Piramide di Caio Cestio, dove ha trovato il primo parcheggio, ma a quel punto le ci vorrebbe più di mezz’ora a piedi per arrivare all’Isola. Quindi, addio film, volta la macchina e se ne torna a casa.

Nel frattempo io mi sono immersa in quella folla colorata, respirando con piacere tutta la vitalità che queste serate riescono a trasmettere, veicolando, insieme con il semplice intrattenimento, molti spunti culturali interessanti, espressioni artistiche di giovani ancora sconosciuti, eventi dedicati ciascuno a qualche tema importante a livello globale, per lo più ignorato dall’informazione di massa dei telegiornali.

Poi inizia il documentario e appare un mondo, quello di Sarajevo e della ex-Jugoslavia, dove l’arte e la cultura devono fare i conti con la povertà e la devastazione di un paese appena uscito dalla guerra, con la diversità religiosa che, ben lungi dall’essere considerata fonte di arricchimento della società, diviene sempre più barriera alla comunicazione tra persone che vivono le une vicine alle altre.

Mi colpiscono le testimonianze di quei ragazzi di Sarajevo che parlano dell’importanza dell’arte nella loro vita, delle sculture che espongono nonostante le mostre rimangano vuote, della musica che vogliono suonare sempre e comunque, cogliendo ogni occasione, sfruttando ogni opportunità, rifiutando di unirsi al pessimismo diffuso di chi, in quei paesi, sa solo lamentarsi e dire: “Tanto qui non ci sono possibilità, è inutile darsi da fare”; mi feriscono le parole di un professore universitario di arte costretto ad ammettere che le scuole artistiche della città non possono accogliere la maggior parte degli studenti perché mancano gli strumenti per creare: il gesso, i colori…


Poi c’è la riflessione di Daniel sulla forza, sulla determinazione delle persone che hanno incontrato lì, nonostante la povertà e le prove che la vita ha loro destinato fino ad oggi, e quella domanda: “Al di là della guerra, il nostro modo di vivere è davvero migliore?”.

Mi guardo intorno e vedo la ricchezza di possibilità che abbiamo a portata di mano, una Roma talmente traboccante di arte e di cultura da farci dimenticare di essere dei privilegiati, da farci ignorare la bellezza che è sotto i nostri occhi o darla per scontata o, ancora peggio, maltrattarla, rovinarla, sporcarla.

Penso a cosa darebbero quei giovani artisti di Sarajevo per vivere da noi e al tempo stesso a quanto la nostra ricchezza – non parlo di quella artistica - ci anestetizzi, ci faccia dimenticare l’essenza della vita, ci confonda le idee o come, in nome del dio denaro, vendiamo le nostre vite al miglior offerente, trovandoci alla fine inariditi e soli.

L’ampiezza di respiro degli eventi come l’”Isola del Cinema” e di tanti altri in corso in città in questi giorni mi conforta e mi fa sperare, soprattutto per l’affluenza massiccia della popolazione e la voglia che mostra di aprire gli occhi sul mondo.

Spero in un futuro in cui la libertà e l’accoglienza, la scoperta della ricchezza che viene dalla diversità, il senso profondo di fratellanza con gli altri popoli non diventino, come ora purtroppo accade in Italia, accettazione diffusa dell’illegalità e lassismo, immobilismo e paura di far rispettare norme di giustizia e di civiltà che sono state stabilite per la tutela di tutti, non per consentire l’impunità a chi viola sistematicamente la legge.

Sogno un paese dove la razionalità della legge sposi il senso di solidarietà e di apertura verso gli altri; dove la libertà di espressione dell’arte e della cultura si accompagni all’efficienza e allo sviluppo, dove i politici utilizzino le entrate dello Stato per creare un paese a misura d’uomo, con interventi strutturali profondi e coraggiosi, dove non regni più l’arte dell’arrangiarsi, ma la vita sia semplificata da un sistema intelligente, che alleggerisca la burocrazia, il traffico e ci lasci più tempo per dedicarci all’arte e alla bellezza delle opere che uomini e donne possono creare.

E dove, tornando al nostro piccolo caso, quando si crea una città-salotto culturale e d’incontro, almeno si costruiscano dei parcheggi per potervisi fermare, o meglio ancora dei trasporti pubblici in grado di invogliare i cittadini a lasciare a casa l’auto, per il bene di tutti.

Quando il documentario termina è quasi l’una. Arrivo a piedi ad una fermata di bus notturno e comincio ad aspettare. Vicino a me due nordafricani laceri e ubriachi continuano imperterriti a bere e lanciare a terra bottiglie vuote. Alle due il bus arriva. Alle 2 e dieci sono a casa.


(27/07/2007)