Bruce Lee, Dio e Marx. Gli idoli di una bambina di dieci anni, nata da una famiglia colta e progressista, nelle maglie di un paese tormentato da sempre: l’Iran. Qui comincia la storia di Marjane, bambina fantasiosa e poi ragazza dalla vita spigolosa, come quella di tanti iraniani. Oggi Marjane Satrapi è autrice di fumetti, e con la matita ci ha restituito la sua storia, avvolta nelle spire di quella iraniana, dall’ascesa khomeinista a oggi.
L’Iran dei volti nascosti dal velo o dalle barbe nere dell’ortodossia religiosa si stempera nella casa di Marjane, dove la famiglia si protegge e insieme sfida segretamente il regime. La vita pubblica stringe in una morsa quella privata: limita, esilia e uccide, ma non le impedisce di scorrere e trovare nuove strategie di resistenza. La lotta che negli anni Marjane conduce con se stessa sarà sempre anche lotta contro il regime, contro le libertà negate: crescere in Iran, per chi si fa delle domande, significa accettare sfide che altrove non esistono.
Così Marjane da bimba diviene donna, fra la cure di una famiglia moderna, sotto l’ala della madre e soprattutto della nonna, energica maestra di integrità e anticonformismo. Espatria tre anni in Austria per guadagnarsi quel po’ di adolescenza “normale”, ma sperimenta l’inospitalità dell’Europa e l’inaffidabilità dei primi amori e amicizie che vivrà lì. Poi di nuovo in Iran: la depressione, un matrimonio fallito, la voglia di riscatto e l’ansia di creatività, sempre sotto lo sguardo del fanatismo integralista.
Per questo l’autobiografia a fumetti di Satrapi, oggi battagliera intellettuale parigina, ha un valore universale e peculiare insieme: parla della poesia e dell’asprezza di qualsiasi maturazione individuale, fra amori, amicizie, riti di famiglia ed eventuali passioni politiche. Ma allo stesso tempo è un trattato sull’Iran contemporaneo, di una lucidità e di una scorrevolezza uniche. Sostituire ai resoconti giornalistici dei semplici disegni in bianco e nero ha reso molto più umano e a noi comprensibile lo spaccato di questa nazione, della quale dai nostri salotti sperimentiamo solo la delirante propaganda e la scalata al nucleare.
Il cartone animato che ne è nato è un piccolo gioiello in bianco e nero che ha conquistato critica e pubblico a Cannes. Tre anni di lavorazione, su un fumetto di successo planetario, tradotto in venti lingue. L’impatto iniziale è straniante: le tinte smaglianti della barriera corallina di Nemo o l’animazione computerizzata che governava Shrek sono spariti. Straniante, ma non troppo: sullo schermo rivediamo quasi i nostri disegni da bambini, realizzati a mano (sono 80mila), di una semplicità disarmante, bidimensionali, ma di assoluta forza espressiva. Verrebbe da dire: potevo farlo anch’io, e naturalmente non è vero.
Al minimalismo del disegno fa eco quello della narrazione, incline al realismo: del tutto naturale quando i temi possiedono una tale autonoma forza espressiva. Ma anche lo stile vuole la sua parte: excursus storici realizzati con le marionette, disegni caricaturali, forti scelte di montaggio. Una piccola sarabanda di scelte ed effetti che spesso virano sul comico. A questo Satrapi tiene molto: quando si arriva a certi livelli di sofferenza – dice Marjane verso la fine della storia – restano il suicidio o la risata. E il modo migliore per raccontare questo Iran in cui si è trapiantato l’integralismo, è provare a sorridere delle sue contraddizioni, dei paradossi che si impadroniscono delle vite comuni.
Un film di donne (non femminista) e di eroi (con e senza macchia), romanzo di formazione e film politico, in cui l’ago della bilancia resta sempre in equilibrio fra poesia e sorriso, con la grazia e la sicurezza di chi ha ben chiaro il senso di ciò che vuole raccontare. E mantenendo la semplicità come stella polare: quasi fosse l’unica strada per rielaborare il mistero (orribile) di un regime schiacciante e quello (poetico) di ogni crescita personale. In entrambi i casi, l’inesprimibile divenuto storia.
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