VIAGGIO IN SENEGAL: A KAFFRIN E DINTORNI
Dalle coste, si passa al paesaggio senegalese dell'entroterra. Continua il viaggio di Giuliano attraverso questa terra affascinante...
di Giuliano Rizzi
Kaffrine si trova a quasi 300 km da Dakar e a 4 -5 ore di viaggio verso l’entroterra, sulla strada che porta a Tambacounda. Per arrivarci ci sono varie possibilità, due delle quali sono: o passare per Thiès, Diourbel e Gossas (dove poi bisogna svoltare a sinistra, in direzione di Mbar e quindi Kaffrine), oppure passare per Mbour e Kaolack, dalla quale dista circa 70 km. In entrambi i casi si costeggia il mare fino a dopo Rufisque: poi bisogna scegliere, tenere la destra o la sinistra...

In questo tratto il mare, che lo si può ammirare sulla destra della strada, si esprime in tutta la sua bellezza, sconfinatezza e solarità. Qui comincia la “Petite Côte”, con le sue belle spiagge dorate, le dolci onde – non come quelle più selvagge di Guedyawaye, Mboro, Saint Louis -, i piccoli villaggi turistici. Una non solo bella, ma anche rintemprante sensazione quella che l’orizzonte ti offre, perché, prima di entrare nella calda savana senegalese, ti ricordi dei bagni rinfrescanti fatti alla Plage des Mammelles. Comunque, se un giorno vi capitasse di dover uscire da Dakar in auto, qualsiasi sia la vostra meta, cercate di evitare gli orari di traffico di punta: è micidiale, invadente, snervante. Tuttavia, la sua esoticità, la sua vivacità, le mille situazioni, le persone e tutto ciò che a quel traffico disordinato fa da contorno, può rendervi piacevole anche il dover stare incolonnati per un paio d’ore sotto un sole cocente...

Per arrivare a Kaffrine si possono prendere dei “Taxi-Sept-Places” (vecchie Peugeot station wagon da otto posti, spesso messe molto male…) che partono dalla stazione dei Taxi ed “autobus” “Des Pompiers”, in centro a Dakar. Orari di partenza non ce ne sono: si parte quando la macchina è piena.

La strada è tutta asfaltata, anche se spesso sono presenti profonde buche alle quali bisogna fare attenzione se non si vuole distruggere la macchina….comunque sono segnalate da mucchietti di pietre (tipo quelli che ci sono sui ghiaioni di montagna per indicare un sentiero) e gli autisti sembrano conoscerle a memorie, schivandole a destra ed a sinistra in uno slalom svolto con una agilità degna di Tomba….Se aspettate di raggiungere la vostra meta seguendo i cartelli stradali, lasciate stare. Penso non ce ne sia uno: la strada o la conosci o non la conosci!

Poi, lungo il tragitto, si attraversano i villaggi, con le case ed i cortili pieni di bambini, donne, galline. Qualche volta l’autista si ferma per una sosta, come all’autogrill, ed allora una manciata di donne e bambini si affollano alla macchina per vendere acqua, tè, ghiaccio, banane; altre volte si va dritti a casa senza neanche una sosta per pisciare...

Il panorama è abbastanza monotono: piatto, molti baobab, campi coltivati, qualche mucca che attraversa la strada e qualcuna distesa sul ciglio della strada, morta e mezza mangiata dagli animali selvatici. Nessuno sembra preoccuparsi di levarla.

Si incontrano altri mezzi di trasporto, pullman, taxi, i soliti carretti, camion stracarichi di paglia e legname (spesso di origine illegale), i modernissimi (gli unici veramente nuovi!) tir per la benzina della Shell (un giorno ne vidi uno con una capra legata sul tetto...), gente a piedi che mi chiedo da dove arrivi: il paese più vicino è a 10 km...insomma, un via vai generale, ma sporadico.

Kaffrine ti accoglie come una tipica cittadina di provincia senegalese...: calda, assolata, polverosa, pochi alberi, poche macchine, molti carretti trainati da cavalli o asini che fanno servizio taxi, poche strade asfaltate (solo le principali, le altre sono tutte in sabbia), gente che cammina con tranquillità o che discute animatamente, bambini che giocano, sporcizia che brucia e sacchetti di plastica ovunque (i primi giorni, non sapendo dove gettare la buccia della banana che mi stavo mangiando mentre ero a passeggio, me la riportai a casa…ma poi imparai a buttarla per strada….nessuno si scandalizza!), solo case, nessun palazzo, le più alte a due piani, e, anche qui spesso inconcluse...in attesa di una fine. Da queste parti, di Toubab (i bianchi), non se ne vedono molti...solo i preti e le suore missionari, qualche turista di passaggio: non si passa certo inosservati.


Ad un primo impatto, a noi europei, Kaffrine sembra un paese, anche se molto grande. In realtà c’è tutto quello di cui una media cittadina necessita: un liceo (enorme) e scuole elementari, un palazzetto dello sport (dove si tengono anche concerti), uno stadio, una stazione dei treni (l’unica linea internazionale dell’Africa Occidentale: Dakar-Bamako, Mali.

L’unico problema è che non si sa con certezza con quali orari e, soprattutto, in quali giorni passino i treni: bisogna aspettare...), un night-club (gestito da Janine, una francese di quasi settant’anni...), un cinema in cui si danno vecchi film europei ed indiani (un mio amico vide “Vieni avanti cretino”, con Lino Banfi, in italiano: non so quanti spettatori avessero capito qualche cosa…), dei meccanici, una stazione di polizia con prigione, un ospedale, una stazione di servizio della Shell moderna, identica per le insegne, le luci, il servizio e la divisa del benzinaio a quelle in Europa (in cui capita, però, che non ci sia benzina), mille “boutique” (piccoli negozietti in cui si vende un po’ di tutto), il mercato con i suoi sarti, le verdure, cianfrusaglie varie, ecc…
Insomma, non manca proprio nulla, proprio come in una cittadina italiana: solo se vi capita di cercare delle guarnizioni per il rubinetto che perde, potrebbero esserci problemi…Caratteristiche sono le sue ”dibitierie”, tavernette in cui si può gustare il “dibi”, carne di montone grigliata al fuoco. Un giorno ne visitai una, dove ordinai anche della Coca-Cola da bere, che, però, non c’era. Allora il gestore andò in una boutique dall’altra parte della strada, parlò con il proprietario, mi indicò, e tornò con una bottiglia di Coca-Cola. Quando pagai, tornò alla boutique e rese i soldi dovuti: a me non fece pagare un cent di più di quello che la pagò lui. Come dire, credito sulla fiducia senza interessi….Dalla stazione degli autobus, si possono prendere i “Taxi-Brousse” con destinazione i villaggi di savana, oppure le altre città.

Nei pressi di Kaffrine, a circa 30 km e due ore di pista sterrata, con buche profonde anche quasi un metro, c’è Ndyao Bambaly . È un villaggio di savana, di quelli veri, con le capanne con il tetto di paglia, i pozzi per l’acqua, senza elettricità...la vera Africa. Attorno ad esso ci sono i campi di arachidi, di sesamo, delle pseudo-risaie ricavate dal “fiume” Bao-Bolon, boschi molto radi di acacia, giganteschi baobab, l’albero del pane delle scimmie.

Diciamo che tra i villaggi dei dintorni è il più importante: il lunedì si tiene il mercato al quale arrivano venditori ed acquirenti da tutti i villaggi vicini, chi a piedi, chi con il suo carretto a cavallo, che vengono “parcheggiati” in aree appositamente organizzate. In esso si può trovare di tutto: cesti, vasi di terracotta, ortaggi e frutta, bacinelle di plastica, artigiani vari, panettieri. Forse non ci crederete, ma qui ho mangiato alcune tra le più buone baguettes della mia vita.

I suoi abitanti si conoscono tutti (un migliaio) e conoscono anche tutti quelli dei villaggi vicini. I bambini corrono scalzi e giocano, sempre allegri. Quando vedono un bianco gli corrono incontro, mentre i più grandicelli si occupano dei più piccoli o vanno in cerca di legna da ardere nella savana. Naturalmente, vedendoti, si aspettano da te un piccolo regalo , qualsiasi cosa (una penna, un cappellino, una carezza, una stretta di mano). Vi erano alcuni problemi con i pastori nomadi (perlopiù di etnia Peul, originari del nord del Paese, ai confini con la Mauritania) che di lì transitavano con le loro greggi: venivano accusati di arrecare danni ai campi coltivati e di rubare alcuni capi di bestiame appartenente al villaggio. Una rivalità antica come la civiltà: l’agricoltore contro l’allevatore.

A Ndyao Bambaly ci andavo abbastanza spesso, per lo più con il comodo fuoristrada del progetto per cui lavoravo.

Mi capitò, tuttavia, di raggiungerlo anche con altri mezzi. Una volta con una vecchia e scassatissima Renault 4, senza ammortizzatori. Eravamo io e Jean Claude. Ad un certo punto, ci viene incontro a tutta velocità un’altra Renault 4 facendo i fari. Jean Claude si gira all’improvviso: dietro di noi ce n’è un’altra che sta rallentando...

Il mio amico ha un’aria preoccupatissima, diventa pallido, pur essendo senegalese...
”Eh, Giuliano, vai, vai, veloce, veloce...è pericoloso...non ti fermare...” Mi disse che sarebbero potuti essere una pattuglia della polizia e dei contrabbandieri o venditori di droga: siamo a pochi chilometri dal confine con la Gambia, e ci sarebbe potuta essere una sparatoria e noi ne eravamo nel bel mezzo.

Il mio cuore cominciò a battere a mille all’ora. Tirai dritto senza farmelo dire due volte…passammo la Renault davanti a noi. Guardai nello specchietto retrovisore: le due auto si avvicinarono. Le persone cominciarono a parlare tra loro: erano tutti delinquenti o tutti poliziotti, meno male...

Altre volte mi capitò di andarci in “autobus”: uno di quei vecchi furgoni Mercedes, da una trentina di posti. Il mio, come tutti gli altri, era stracarico non di persone (i passeggeri erano, stranamente, uno per ogni posto….) ma di mercanzie: capre e pecore sul tetto, sacchi, ecc...: i polli – legati alle zampe- prendevano posto all’interno, sul grembo dei passeggeri oppure sul pavimento. Capitava che, non essendoci cartelli stradali, l’autista non conoscesse la strada: si fermava ad un incrocio in un villaggio a chiedere informazioni. Naturalmente, poi, ogni passeggero aveva una sua strada differente da indicare...e così si viaggiava anche un po’ a vuoto, nella savana...


Qualche volta vi dormii anche. O meglio, cercai di dormirvi: Jean Claude, con cui dividevo il letto fatto di legni intrecciati tra loro (tipo i cesti di vimini), russava in una maniera strepitosa. Con lui al fianco era impossibile prendere sonno. La nostra dimora era una capanna di muratura grande quanto una mezza stanza, con il tetto di paglia, il pavimento in terra battuta, la porta d’ingresso di lamiera che si poteva chiudere con un lucchetto.

Questa precauzione non l’ho mai capita: l’interno era, a parte il letto ed un’otre con della freschissima acqua, completamente vuoto. Non c’era niente da rubare, ma proprio niente. Comunque era molto interessante passarvi la notte. Immaginatevi un villaggio completamente buio, senza elettricità. I più organizzati disponevano, al massimo, di una lampada ad olio. La gente si trovava a chiacchierare e a discutere bevendo l’attaya, un tè molto forte importato dalla Cina, preparato su di un fornelletto a carbone. La sua preparazione richiedeva un paio d’ore: accensione del fuoco, riscaldamento del carbone, ebollizione dell’acqua, la “cerimonia” per berlo.

Ciò che più mi impressionò era sentire voci, risate, discussioni completamente al buio, senza vedere nessuno. Le più particolari erano quelle provenienti da lontano, che andavano a confondersi con il silenzio della savana. E`una esperienza durante la quale non si ha voglia di parlare, ma solo di ascoltare i suoni e rumori provenienti dalle tenebre. È molto toccante ed impressionante.

La mia presenza a Ndyao Bambaly causò, tuttavia, dei problemi. Essendo bianco dovevo avere tanti soldi, anche se, in effetti, non era così. Un mattino, era ancora buio ma gli autobus in direzione di Kaffrine erano già pronti alla partenza, il villaggio fu risvegliato da un evento indicibile. Una boutique, nella quale il giorno prima feci degli acquisti, venne svaligiata. Il furto consisteva in un paio di confezioni di batterie, delle candele e poco altro. Forse qualcuno pensava di trovare un bell’incasso in seguito alla mia spesa. Io non vi spesi più di 2 euro.


(07/05/2007)