RESPONSABILE A MODO MIO. TRE STRADE VERSO LO SVILUPPO CONSAPEVOLE
Il racconto di tre storie e stili differenti per reagire a un unico, comune problema: la corsa cieca dello sviluppo insostenibile.
di Stefano Zoja
Emergenza climatica, crisi ambientale, insostenibilità dello sviluppo: comunque lo si chiami, ormai il problema è percepito da tutti e un movimento di reazione ora esiste, s’ingrossa, è una nuova forza culturale. Ne parlano documentari e articoli, si organizzano fiere a sostegno del consumo critico, se ne dibatte in minuscoli convegni di intellettuali e se ne parla in tv il sabato sera. E’ un movimento per il “di meno”, per la decrescita, o almeno per la crescita responsabile, contro il consumo sfrenato che dissecca la Terra e gli animi. I portavoce sono Vandana Shiva, Al Gore, Georgescu-Roegen, Beppe Grillo, eccetera. Come a dire: il problema c’è e comincia a vedersi, per le soluzioni invece si va in ordine sparso.

Ma ci si muove e sembra una di quelle fasi di disordine creativo che di solito precedono un evento o un personaggio coagulante. O forse non sarà così: forse la coscienza ormai sempre più netta della necessità di un nuovo atteggiamento nei confronti del pianeta manterrà questa forma polverizzata. Dispersa ma crescente e vitale.
Intanto raccontiamo tre storie: tre modi diversi ma convergenti di reagire al disinteresse verso la Terra, al saccheggio compulsivo delle risorse naturali.

La scelta di Etain Addey – Etain Addey è una donna inglese che vent’anni fa ha abbandonato il suo lavoro in una multinazionale per aprire un piccolo podere in Umbria, il “Pratale”, un casolare di legno e sassi a forma di “c”. Ha fatto una scelta radicale, consapevole, di quelle che stanno sulla bocca di molti per poi rimanere lettera morta. Etain, invece, ha abbandonato la città, lasciandosi alle spalle i tempi frenetici, il caos, il grigio dei palazzi e la vita in batteria, ma anche i cinema e i teatri, i ritrovi con amici, gli intrattenimenti serali. Ora risiede sulle colline vicino a Gubbio con suo marito Martin. Ha fondato una “casa aperta”. Vivono facendo i contadini con la forza delle braccia e degli aratri, minimizzando l’utilizzo della tecnologia moderna. Un luogo dove rimangono soli la natura e l’uomo, con le sue protesi più essenziali. Qui ci si può recare per periodi anche brevi, a riscoprire i ritmi naturali, per riconnettersi con una parte profonda dell’essere umano, spesso soffocata dalla vita metropolitana.

Etain è anche scrittrice e ha pubblicato “Una gioia silenziosa: diari di Pratale”, sulla sua esperienza umbra. Dentro si trova scritto: “Possiamo rinunciare alle comodità della nostra vita e pagare la rinnovata visione con l'antica, dolorosa precarietà dimenticata? Pochi lo faranno, ma è importante essere consapevoli che ogni passo che ci allontana da una vita di dipendenza diretta e sentita dagli altri esseri ci allontana dallo spirito. Quindi è meglio dipendere dalle gambe che dal petrolio, meglio dipendere dal fuoco che dal nucleare, meglio il selvatico del coltivato, meglio l'agricoltura fatta con mezzi manuali che industriali, meglio creare che comprare”.
Un ritiro che è un ritorno alla natura, una scelta privata che non esclude nessuno.

Le “Transition towns” – Poche città, fra Inghilterra e Irlanda, che hanno preso una decisione radicale e semplice: eliminare completamente il petrolio e i suoi derivati – come la plastica – dalla vita quotidiana. E’ un movimento nato dal basso: sono i cittadini che con le loro attività e comportamenti perseguono il rinnovamento ecologista; le amministrazioni comunali al massimo rilasciano il loro beneplacito (e una sommetta simbolica a sostegno, come è stato il caso dei 5.000 euro del comune di Kinsale, piccolo centro irlandese pioniere dell’iniziativa).

Kinsale, appunto, ma anche cittadine come Totnes e Ivybridge in Inghilterra, e una città come Bristol, e un quartiere storico di Londra, Brixton. Tutti luoghi che hanno aderito all’iniziativa, vista come etica e utile insieme. “Non si cambiano mai le cose lottando contro la realtà esistente. Per cambiare qualcosa si deve costruire un nuovo modello, che renda obsoleto quello esistente”. Sul sito della cittadina di Totnes si trova questa citazione da Buckminster Fuller, un utopista americano del secolo scorso. Ed è proprio a Totnes che, parallelamente all’iniziativa di installare in via sperimentale una cinquantina di pannelli solari sulle abitazioni di privati, si stanno aprendo dei corsi su alcuni mestieri antichi, oggi in via d’estinzione: si imparerà come crescere le verdure nell'orto, come bruciare la legna nel modo meno dannoso per l'ambiente, come fare il pane, come rammendare le calze, come cucinare usando solo prodotti stagionali. Il che consentirà il consumo di prodotti locali senza ricorrere a quelli importati (dunque, inquinanti).

Iniziative che svincolano le comunità dai governi nazionali dalla timidezza delle politiche ambientali, e possono mettere pressione alle autorità locali. Un modo nuovo e più profondo di vivere e sentire la collettività.


Tocca a lei, Mr. Hickman – Leo Hickman è un giornalista del The Guardian, uno dei principali quotidiani britannici. Sta per uscire in Italia il suo ultimo libro: “Una vita ridotta all’osso”, nel quale Hickman racconta l’esperimento cui si è sottoposto nell’ultimo anno: vivere in maniera il più possibile etica e rispettosa dell’ambiente. Senza lasciare la sua casa, o la sua città, senza cercare di trasformare la sua comunità, ma semplicemente adattando il suo stile di vita ai nuovi modelli di consumo critico.
Però non tutto è semplice come a parole: il giorno in cui Hickman ha ricevuto in casa sua la commissione etica che avrebbe valutato il suo operato si è reso conto della durezza del compito che lo attendeva. Burro o margarina? Che percentuale dell’ammorbidente è biodegradabile? La comunità peruviana di cui compro il cioccolato rientra nel giro del commercio equo e solidale? Il mio frigorifero sarà sufficientemente a basso impatto? E che dire del quando come e dove si va in vacanza? Nel volgere della giornata iniziale di scrutinio Hickman già vacillava, chiedendosi se era in grado di sostenere la sfida. “E’ stato come visitare una casa con un agente immobiliare, ma al contrario. Invece di sentire decantare i meriti di ogni stanza, siamo stati portati in giro per la nostra stessa casa (e in un certo senso per la nostra vita) e la maggior parte di ciò che è stato visto è stato criticato e perfino condannato.
E’ possibile vivere nel modo proposto dai consulenti? Analizzando in maniera così profonda ogni cosa che fai, compri o mangi?”


Naturalmente Hickman l’ha fatto. Ha portato all’estremo lo stile di vita critico e consapevole che sempre più persone adottano, ciascuno con la propria sensibilità. La serie interminabile di paradossi cui si è trovato davanti appare come la rivisitazione all’incontrario dei paradossi che il sistema capitalista ha nascosto per molti decenni. Lo spaesamento di Hickman è forse il rovescio del comfort ipocrita in cui questo sistema ci ha permesso di vivere.
Ma, insomma, Hickman è rimasto dentro il suo lavoro, la sua vita, la sua città, cercando di agire per il bene comune. E lavando il bagno con una fetta di limone intrisa di bicarbonato di sodio e aceto di malto biologico.

Tre vie diverse per rispondere alle stesse problematiche: quella del ritiro individuale, ma non per questo egoistico o inospitale; quella dell’azione comune scaturita dal basso col fine di migliorare la collettività; e quella dell’azione individuale che resta inserita nella società. Ancora non esiste un metodo unitario e non è detto che arrivi presto.

C’è però un doppio comune denominatore: l’attenzione verso le nuove necessità dell’ambiente e della dimensione globalizzata, e la nascita di queste iniziative da parte dei privati cittadini, meno pigri e compromessi di molti governi e organismi internazionali nel farsi carico di questo nuovo corso storico.


(27/04/2007)