Otto marzo: la classica cena fra donne. Casualmente otto (compresa chi scrive), giovani e meno giovani, come nel film di Ozon. Cronaca di una serata dove c'era un protagonista invisibile: un bambino. Temuto, inaspettato, voluto, cresciuto, perduto.
Forse pensare a una tavolata di donne, amiche e colleghe di lavoro, per l'8 marzo sembra corrispondere al più trito luogo comune... ma è andata in questo modo, otto donne di diverse età e variamente impegnate hanno trovato, dopo tanto accordarsi e disdire, solo quella data per fissare una cena che si desiderava da tempo. È capitato così. Garantisco comunque che nessuna di noi aveva il benché minimo desiderio di infilare banconote da cinque euro negli slip del Costantino di turno.
E allora, visto che abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno: la sottoscritta chiede aiuto a tutte per un articolo per il “dossier maternità” di Terranauta, che incombeva lì da qualche tempo ma che come risposta trovava solo un foglio bianco.
Che la mia personale idea di maternità, da ventitreenne confusa fosse solo un foglio bianco?
Ho provato a vedere se dopo una chiacchierata al femminile qualcosa sarebbe emerso...
Previdente, lancio l'argomento al momento del limoncello finale.
E iniziamo subito col dire che sul tavolo ci sono sette limoncelli: perché Laura, che ha la mia età, è incinta, e non beve. È per forza di cose la prima da cui tutte ci aspettiamo un'opinione. Laura ha rinunciato a tante cose, oltre all'alcol: anche alle sigarette, a un cagnone a cui non è agevole badare insieme a un bambino piccolo, e al lavoro con cui arrotondava. E ha interrotto per adesso gli studi. “Ma ho deciso di tenerlo – racconta – perché ho due cose importanti: una famiglia e un fidanzato che mi sostengono. Un fidanzato che ha un lavoro fisso”. La sottolinea, questa cosa: nel mondo tempestoso del precariato ha intravisto un appiglio stabile, e ha deciso di fidarsi, di costruirsi un centro attorno al quale far ruotare la sua vita. Matteo nascerà a giugno “e spero tanto – dice ridendo, ma anche un po' preoccupata – che non decida di farlo nel weekend: perché altrimenti nel mio ospedale non è presente l'anestesista per l'epidurale, e allora la dovrei pagare più di mille euro”. Insidie del nostro sistema sanitario nazionale.
L'epidurale era parola sconosciuta ai tempi di Teresa, la mia collega che è in vista della pensione, e spera anzi che sua figlia ormai grande la renda presto nonna: “Quando è toccato a me era tutto diverso, e non solo il modo di partorire. Io mi sono sposata a vent'anni ed ero incinta a ventuno, ed era la cosa più normale.
Io a quel tempo lavoravo già, da anni, perché c'era lavoro per tutti” Tante cose erano più semplici ai tempi di Teresa. Paradossalmente, forse, anche essere donne che lavorano: chi aveva bisogno di asili, di nidi, di baby-sitter? “In paese, mentre io andavo a lavorare, c'erano i parenti e i vicini del cortile che potevano dare un'occhiata alla bambina. Si faceva fatica lo stesso, e tanta, ma l'ottimismo e l'energia erano diversi”.
Sentendo queste parole è Martina, 25 anni, che ha un sussulto: vediamo i tempi di Teresa come bigotti e maschilisti, ma a Martina è capitato che a un colloquio di lavoro (per una nota catena di librerie che fa capo a un editore che ha fama di essere “di sinistra”) le buttassero lì l'odiosa domanda: “Ce l'ha un fidanzato?”.
Che non vuol dire che il selezionatore fosse stato colpito dalla sua avvenenza: quella domanda si traduce con “Hai intenzione di fare figli? Perché noi di potenziali mamme non ne vogliamo, ci fanno perdere soldi”. Martina non aveva un fidanzato e nessuna intenzione di fare figli per il momento, ma si è alzata e se ne è andata. Decenni di femminismo e la prassi dei colloqui di lavoro (non crediate che sia un caso eccezionale) è questa qui.
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Più fortunata è Daniela, 36 anni, che è riuscita a conciliare un lavoro flessibile con l'essere mamma di tre figli, che hanno dagli otto mesi agli otto anni. È un po' la supermamma beniamina di tutte quante. Ultimamente è alle prese con le ultime malattie invernali che hanno colpito i tre pargoletti contemporaneamente, costringendo lei e suo marito a un pesante tour de force.
Dei due, quella che ha potuto sfruttare part-time e permessi per stare a casa, è lei: “E mio marito comunque fa quello che può, appena a casa dal lavoro schizza lui a fare tutte le commissioni, per alleggerirmi. 'Corro a farti la spesa' mi dice premuroso senza nemmeno togliersi il cappotto. Ma io lo fermo – ride – Gli dico che ci vado io! Ci voglio andare io! Voglio la mia ora d'aria!”.
Un altro giro di limoncello e stavolta è Giorgia che si scioglie. Non tutte le storie allegre, e non mi pare giusto scendere nei particolari personali di quella di Giorgia: tre anni fa, quando ne aveva 20, ha abortito. Il suo dolore non si può raccontare e la sua vicenda non dovrebbe essere paradigmatica di nulla. Basti sapere che è una donna forte e che porta sulla sua pelle una scelta che continua a ritenere giusta: “Il mio ragazzo era ancora un bambino, e per quanto premuroso non era capace di afferrare tutta l'immensità della cosa. Non volevo fare da mamma a due bambini invece di uno. Non volevo rinunciare ai miei sogni.” Ma non erano solo la paura e la solitudine a guidare i pensieri di Giorgia “Poi quando l'ho spiegato a mia mamma, che quando mi ha avuta era troppo giovane, ho dovuto anche spiegarle un'altra cosa: quanto fosse stato difficile per me avere una mamma amorevole, sì, ma non preparata. Io non volevo ripetere quella storia”.
Rimaniamo in tre a dover dire la nostra. Tutte e tre giovani e dal futuro incerto, per cui la maternità è veramente un foglio bianco. Stefania nega decisamente l'idea: si sente ancora più figlia che potenziale mamma, proprio come me. Bea ha qualche anno in più e le idee un po' più chiare: idee che comunque non contemplano la ricerca di un figlio prima di avere una casa sua, una minima stabilità, cose per cui sta cercando di combattere.
A chi pontifica sulla paura dei trentenni di oggi di uscire di casa, di legarsi stabilmente e di fare figli, risponde combattiva che non è paura, ma è sbattere la testa contro un mondo (casualmente costruitoci attorno proprio da chi tende a pontificare su calo delle nascite e inettitudine giovanile) fatto di precariato; di sfruttamento mascherato da tirocini, stages e contratti a progetto; di subdoli disincentivi come quelli che sono emersi nel colloquio di Martina.
Ovviamente da tutto ciò esco frastornata. La mia confusione trova conferma, con il vago sospetto che a nascere qualche anno fa, le cose sarebbero state più facili. Ha ragione Bea: non ho realistiche prospettive per i prossimi anni se non un susseguirsi di contratti a progetto e nessuna stabilità, e non perché non la cerchi. Ha ragione Giorgia: i nostri coetanei non sono cattivi né stupidi, ma nella maggior parte dei casi sono immaturi, sembra che il problema non li riguardi, e se penso a tutti i ragazzi che ho avuto non ne trovo uno neanche lontanamente corrispondente a un ipotetico ruolo di padre.
Ma c'è anche Laura che è vicina a me per età e per studi, e ha deciso di scommettere sul bambino che verrà. La sua presenza fa scattare in me qualcosa. A vent'anni avrei fatto la stessa scelta di Giorgia. Ma ora che ne sono passati solo tre c'è qualcosa di veramente diverso nel modo in cui vedo le cose.
Penso che forse, trovandomi nei panni di Laura, manderei a quel paese capi-sfruttatori e fidanzati-bambini, e rischierei, anche in solitudine. Che poi solitudine non sarebbe.
Troverei la forza di rinunciare a tutto (studi, viaggi, comodità e sogni) per un bambino?
Non ho la risposta, ma per la prima volta mi pongo la domanda in una maniera realistica. E forse vuol dire che sono cresciuta un po'.
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