DAKAR: CAPRE IN TERRAZZO
Racconto di un viaggio indimenticabile in Africa. Dakar, prima parte.
di Giuliano Rizzi
Nei giorni immediatamente prima della partenza, mi chiesi più volte “Come sarà? Che cosa mi aspetterà?”. Credevo di essere sufficientemente preparato all’esperienza che mi avrebbe aspettato. Culturalmente, psicologicamente, emotivamente. Persino durante il Capodanno, trascorso pochi giorni prima sulla neve di Bormio, da Michele, fui pizzicato più volte da questi interrogativi. Durante il volo mi sentii tranquillo, sereno.

Certo, un po’ di emozione c’era , ma era dovuta più al volo che ad altro: era il mio primo volo transcontinentale.

Però, quando il capitano ci ordinò di allacciare le cinture di sicurezza, il mio cuore cominciò a battere più velocemente. E sicuramente non era per paura dell’atterraggio.
Dal finestrino potei vederne le luci, la sua skyline, il porto, le strade che la attraversano tagliandola a pezzi percorsi da automobili. Il traffico mi sembrava intenso, sebbene fossero le due di notte passate. Mentre ci abbassavamo di quota, con l’aereo, le case sotto di noi si avvicinavano sempre più, sembrava di atterrare sopra, sui tetti, peraltro piatti. Non erano baracche, ma case vere, in muratura. Volavamo sicuramente a poche decine di metri di altitudine, e se ne potevano distinguere ogni singolo particolare: mura di cinta, antenne della TV, alberi, cortili. Mi chiesi se gli abitanti non si fossero mai lamentati del rumore degli aerei. E pensai ai comuni limitrofi a Malpensa.

Dakar, gennaio di un anno qualunque

All’uscita dall’aereo una fresca aria, direi una brezza marina, carica di energia, intensa, con un buon profumo di mare e sole si lasciò respirare profondamente. Ma era un’aria diversa da quella che si può respirare in un mare italiano: sapeva di esotico, fantasia, viaggio, nostalgia. Allo stesso tempo fu come se ci fosse stato un muro, un muro d’aria che sembrava volesse dirmi ”Sei in Africa. Benvenuto”. Ed io mi fermai pochi secondi ad assaporare la bellezza, la dolcezza e la forza di quel benvenuto. Non lo dimenticherò mai. Ma poi, la fretta di chi all’Africa ed a Dakar ci è abituato, mi ricordò che non ero solo, ed un “Alors? On va avant?” mi riportò con i piedi per terra.

Comunque, terra d’Africa. Il doganiere, un tipo molto sorridente, paffutello e coi baffetti, sembrava per niente interessato al controllo dei miei documenti. Sembrava, piuttosto, che volesse parlare, comunicare: “Bonsoir, monsieur. Comment ca va?De quel Pays arrivez-vous? Ah, l’Italie, c’est bon.C’est fantastique. J’ai un petit frère qui vive là-bas. Vous etez fatiguèe?” . No, non lo ero. Non ero affaticato, e lui mi timbrò il passaporto senza nemmeno guardarlo. Pensai ai controlli in Italia.

Ad aspettarmi, oltre ad un nugolo di ragazzi pronti a portarmi le valige in capo al mondo per pochi soldi, c’era Rita, la quale, nonostante la tarda ora, mi portò a casa di una sua amica italiana dove mangiammo un panettone (portato da me) e bevemmo uno spumante, per festeggiare l’Epifania ed il nuovo anno appena iniziato.

Poi mi portò a dormire da Flora, una italiana sposata con un senegalese. L’appartamento era bello, ben arredato, in stile africano, standard europeo, in una palazzina di due piani molto simile a quelle della riviera ligure. Non eravamo lontani dall’aeroporto. Dopo una breve presentazione, andai a letto, ma non riuscii a prendere sonno. Troppo stanco? Non credo. Piuttosto troppe emozioni da elaborare, come i bambini piccoli.

Mi ero (forse) addormentato quando venni improvvisamente svegliato da un rumore di zoccoli di cavallo, di mucca o qualcosa d’ altro. Poco dopo un forte belato, profondo: ”BEEEEHHHH!”. “Ma viene da sopra: come è possibile?”. Poi voci in una lingua sconosciuta e qualche urla (ma non di aggressione) dalla strada, tanto chiare che sembravano nella stanza accanto.

Poco più tardi venni bruscamente (ri-) svegliato dalla voce di un imam proveniente da un altoparlante gracidante, come se fosse in camera mia. Ma che ore sono? È buio pesto. Il mattino dopo le risposte: l’animale era il montone del vicino del piano di sopra comprato per festeggiare la Tabaski) festa musulmana per ricordare il sacrificio di Abramo) e che teneva in terrazza, le voci e le urla erano quelle dei passanti, la moschea si trovava a non più di cento metri dal mio letto.


Mi alzai e mi affacciai dalla terrazza, adornata con un banano, una bouganville e dei mobili in bambù, incuriosito di vedere con la luce del sole questa periferia “dakarese” (come si dice in italiano “di Dakar”?). Le strade erano completamente sterrate, con cumuli di macerie un po’ da tutte le parti.

Come da noi la neve d’inverno che viene ammucchiata per liberare le strade. C’era un magnifico sole, caldo. Poi andammo in centro in auto. Un traffico che sembra senza regole (e forse in effetti lo è), diventa sempre più caotico, e sconfusionato man mano che ci avviciniamo al centro. Le macchine (quasi tutte uguali: gialle e nere, sono i taxi, come a Barcellona), spesso più che ammaccate, quasi rottami mobili, con vetri rotti e senza luci, condividono la strada con lenti carretti trainati da cavalli.

Poi ci sono i “car rapide”, i mezzi di trasporto collettivo, molto colorati, vivaci, belli, sempre stracolmi di gente. Dall’auto vedo, certo povertà, bambini che mendicano, ragazzi che vanno avanti e indietro a vendere giornali, donne sedute sul bordo della strada in (vana?) attesa di vendere una banana, un cocomero, un limone od altro, mucche e capre che gironzolano libere (ma questa non è la Svizzera, è la periferia di Dakar), immondizie che fumano, splendide bouganville che abbelliscono i muri grigi di cemento delle case, palme, bellissimi eucalipti che con la loro ampia chioma offrono ombra, riparo alla calura pomeridiana. Vedo gente che bighellona, come se non avesse niente da fare se non godersi i bei momenti della vita, in tranquillità, baciati dal sole, in attesa che capiti qualcosa che vivacizzi la giornata.

Vedo uomini che spingono carretti carichi di cianfrusaglie, vedo mercati che sembrano vendere di tutto, ma tutto inutilizzabile, tanta sabbia. Vedo solo case in costruzione, quasi nessuna che si possa definire “terminata”, ma tutte abitate, come se l’intero quartiere si trovasse in una stato di provvisorietà, oppure di rinnovamento, a seconda dei punti di vista. Comunque, si tratta di una situazione permanente. Chi conosce Dakar sa di cosa parlo.

La spontaneità e l’improvvisazione qui sono di casa. E che emozione quando dalla VDN arriviamo sulla strada litoranea, la “Route de la Corniche Ouest”. Proseguiamo verso il centro:alla mia sinistra la città, con la sua Grand Moschee, l’Università Cheik Anta Diop, la Medina, Sandaga, ed alla mia destra l’Oceano Atlantico, le palme, fioriere che stanno per essere posate, una spiaggia, la Plage de Fann, sulla quale vedo centinaia di ragazzi correre, saltare, che fanno piegamenti, flessioni.

Come se tutti si stessero allenando. Sì, ma per cosa? Poi passiamo il Village Artisanal, la Porte du Millenarie, il mercato del pesce di Soumbedioune, l’ipotetica casa di Youssu N’Dour. Vedo un bellissimo sole caldo, che scalda ed illumina questa bella città viva, allegra, colorata, piena di energia, di contraddizioni, di umanità. E penso “Che bello” e mi sento felice. Poi, improvvisamente una voce: ”Giuliano, vedi quell’isola? È l’isola di Gorèe. Lì venivano imbarcati gli schiavi per l’America”. “Ah!”, dissi, colto da sgomento….Fine prima parte


(19/01/2007)