LA RICERCA DELLA FELICITA'
TITOLO ORIGINALE: The Pursuit of Happynes REGIA: Gabriele Muccino CON: Will Smith, Jaden Smith, Thandie Newton, Dan Castellaneta USA 2006 DURATA: 117 minuti GENERE: drammatico, biografico VOTO: 6,5 DATA DI USCITA: 12 gennaio 2007
di Lorenzo Corvino
Chris Gardner è un giovane padre di famiglia che vive e lavora nella città di San Francisco. Siamo agli inizi degli anni Ottanta, in piena era reganiana, la crisi economica si fa sentire e l’intraprendenza del singolo sembra essere l’unica soluzione per invertire la tendenza alla disfatta di cui pare essere portatrice sana la metropoli dei grattacieli e delle grandi corporations.

Pertanto Chris ha deciso di investire tutto in un prodotto della tecnologia, uno scanner medico, venderne uno al mese significa per lui riuscire a mantenere suo figlio di 5 anni e sua moglie insoddisfatta e sfiduciata, al limite dell’indifferenza. Il presentimento che tutto si tenga entro il labile margine di un equilibrio precario c’è e quando arriva la serialità di imprevisti e piccole sfortune si arpiona alle gambe sempre in corsa e in tensione dell’atletico Chris (per forza lo deve essere, non potrebbe fare altrimenti).

Lo spettro della crisi di inizio millennio, quella della Enron, per intenderci, quella delle tante imprese della New Economy, che per tutti gli anni Novanta hanno giocato col denaro degli investitori, è solo uno spettro sullo sfondo che si aggira tra l’estremo lusso ostentato da Yuppies in Ferrari e le decappottabili con belle pupe bionde a bordo.

In parte lo stesso Chris ne è uno degli involontari ingranaggi: egli crede in un’invenzione tecnologica tanto da investirne i suoi risparmi, ma non sempre ciò che promette bene, ciò che è tecnologicamente proiettato nel futuro apre le porte della Felicità. Non è un caso che Chris dovrà conquistarsela attraverso il più tradizionale dei lavori, quello fisico: egli correrà su e giù per San Francisco, inseguendo e facendosi inseguire, correndo per non mancare ad appuntamenti inderogabili e facendo lavori manuali, come imbiancare l’appartamento in cui vive, per pagarsi l’affitto di una settimana in più in un motel come tanti.

Raramente il cinema statunitense riesce a raccontare la miserie e la dipendenza da pochi spiccioli e da pochi strumenti fondamentali per lo stretto necessario; ebbene questo film ha soprattutto questo di immediatamente positivo, farsi carico di un merito sociale qual è un apologo sulla povertà: e se qualcuno obiettasse che non è così difficile raccontare la povertà quando questa è catapultata nel passato, in un’era lontana anni luce ed ormai superata, si potrebbe replicare con due argomentazioni.

La prima è cinematografica: appena un anno fa usciva nella sale un altro bio-pic tipicamente statunitense, altrettanto classico e nei modi dell’esposizione e nella prevedibilità dei valori ottemperati, un film sui temi, appunto, della miseria e della riscossa in linea col mito del Sogno Americano di riscatto personale; questo film è Cinderella Man, su un pugile realmente vissuto capace di risorgere negli anni della Grande Depressione degli anni Trenta.

Eppure questo film diretto da Ron Howard con Russell Crowe non riesce a coinvolgere né a convincere: nonostante il racconto della povertà di un’epoca oramai lontana e il relativo messaggio riconciliante di cui si fa portatore, il film ha forti lacune di verosimiglianza.

La seconda argomentazione è squisitamente culturale: la povertà è sempre un temibile spaventapasseri da rappresentare, perché non consta di un singolo e sparuto fatto orrendo che passa in fretta, ma è l’agonia della dignità colta nel suo lento spegnersi suo malgrado. Ciò vuol dire che quando la si vuole veramente scrutare, questa sarà come una malattia: nonostante possano essere differenti le epoche in cui si manifesta i sintomi saranno sempre gli stessi.


Se da un lato ci preme parlare di questo film per il fatto che è diretto da un regista italiano, l’entusiasmo va subito ridimensionato per il fatto che, sebbene stia andando molto bene negli USA con oltre 130 milioni di dollari di incasso parziale, i meriti vanno principalmente alla prestazione eccellente dell’attore protagonista, Will Smith padre tanto nella finzione che nella realtà (l’attore che interpreta suo figlio è tale anche nella vita) onnipresente e sempre bravo nel restituire la maschera di caparbietà che ha permesso al vero Chris Gardner di fare quello che ha poi fatto realmente con successo negli anni.

Gabriele Muccino ha aderito in pieno alla linea hollywoodiana nella realizzazione di questo film, la sua è di fatto una regia in tutto e per tutto simile a quella dei tanti bravissimi signor nessuno, filmmaker di professione legati a direttive produttive ben precise, che si adeguano a degli standard di rappresentazione narrativa una volta emigrati sul suolo statunitense, quando con l’invidia di tutti gli altri si entra a far parte dell’ingranaggio perfettamente oliato degli Studios.

Ciò implica innanzitutto la rinuncia, da parte di Muccino, di quello stile sincopato e virtuosistico della steadycam così come lo aveva contraddistinto, adoperandolo in maniera preponderante, durante la sua tetralogia italiana (Ecco fatto, Come te nessuno mai, L’ultimo bacio, Ricordati di me), quando in coppia col produttore Domenico Procacci ha di fatto reinventato la commedia generazionale nostrana prima di espatriare ad Hollywood e lasciarci pieni di emuli e di epigoni in tal senso (Ora o mai più, Mai più come prima, Che ne sarà di noi, Tre metri sopra il cielo, Notte prima degli esami, Ma che ci faccio qui, ecc…).

Muccino sarà ricordato anche per questo: per essere stato il primo italiano nella storia del nostro cinema ad essere stato assorbito dallo Studio System; e non è un caso che questa lieta favola succeda quando in Italia il cinema ha smesso di esalare il suo ultimo respiro naturale, mantenuto in vita da un marchingegno artificioso e assistenzialista come è quello dei soli finanziamenti pubblici, per giunta di poche centinaia di migliaia di euro.

Dunque: complimenti vivissimi a (Gabriele) Muccino...e, per quanto riguarda il resto, un’esortazione a porre fine a questo ipocrita e improduttivo, nonché economicamente dannoso, “accanimento terapeutico” nei confronti del nostro cinema, specialmente se tutto ciò significa trattare gli esordienti come carne da macello.


(15/01/2007)