CANGUROTTO E DINTORNI. L’EPOCA DELLA CONSERVAZIONE TELEVISIVA
Gli ultimi anni della storia televisiva hanno rappresentato il vertice dell’esasperazione commerciale dei format. Tanto trasgressivi nelle apparenze, quanto timorosi nelle scelte di fondo. Ma il modello sembra afflosciarsi, a partire dalla crisi dei reality show. Forse ci aspetta qualcosa di nuovo.
di Stefano Zoja
Probabilmente entrambe sono verità importanti: che la televisione plasma i gusti del pubblico, e che, nello stesso tempo, li asseconda. Anzi, sembra esserci un processo di rafforzamento circolare: la tv propone “L’isola dei famosi” e il pubblico finisce per farsi piacere davvero i facili ingredienti; così nella stagione successiva, il telespettatore affezionato fa sincera richiesta (silente) di paesaggi tropicali, bikini prossimi all’evaporazione e voyeurismi assortiti.

Nessuno spezza la catena di montaggio televisiva. Difficile contare sul pubblico, quello dei grandi numeri, risucchiato in un meccanismo tanto mortificante quanto invisibile per chi lo abita.

Anche gli addetti ai lavori incoraggiano poche speranze. Claudio Lippi ci ha intrattenuto per anni con il cangurotto: uno straziante animaletto che gli spettatori di “Buona Domenica” hanno conosciuto bene e quantomeno tollerato. Il cangurotto, che non è il peggiore dei mali televisivi, ha saltellato per anni negli schermi e sui nostri stomaci, senza che nessuno, né autori, né spettatori, dicesse nulla. Solo Claudio Lippi – nemmeno lui fra i morbi più gravi della nostra tv – in un tardivo sussulto di coscienza, ha rinnegato il marsupiale, allorché, per uno screzio con gli autori, si è scrollato di dosso il programma. Troppo tardi e troppo poco: non è cambiato nulla né a Buona Domenica né altrove.

La televisione è un’industria, un po’ come quella degli insaccati o degli idrocarburi, fatte salve alcune, non secondarie, particolarità. Non è educazione, non è cultura – non vuole esserlo. La tv è una macchina da soldi, che segue le dinamiche industriali più tradizionali: la produzione in serie, l’abbattimento dei costi (non sempre), la standardizzazione del gusto, l’invadenza pubblicitaria.

Delle idee, ciò che nell’industria culturale dovrebbe risultare vincente, non ce ne si fa nulla: meglio non rischiare, meglio risparmiare. La televisione si vanta di essere un medium creativo, reclamizza ogni nuovo format come l’avvento dell’Intrattenimento Definitivo.

Ma la realtà è sotto i nostri occhi. Ormai si aggirano in tv pubblicità che surclassano i programmi quanto a innovazione.
Eppure di recente qualcosa si è incrinato. Negli ultimi mesi si sono levati vari allarmi sull’emorragia degli ascolti dei reality show, ex gallina dalle uova d’oro della televisione recente. Direttori tv sconcertati - e sostituiti -, file di ex vip disperati, che non avranno più il loro reality ricostituente. Ma i numeri sono chiari: è ormai un genere che boccheggia e, come sempre in questi casi, lo schianto del gigante rischia di essere istantaneo e rumoroso.

Il reality show, a ben vedere, è un dispositivo rassicurante per il mercato: è un genere che consente di risparmiare sulle idee, sulle modalità produttive e che garantiva l’interesse del pubblico.

Ma il paradosso è proprio che il perseguimento ostinato delle logiche industriali più sicure le sta sgretolando dall’interno. Cosa c’è di meglio del cangurotto? La tv risponde due cangurotti, oppure un marzianotto, e decreta il suo suicidio. Persino da un punto di vista di mercato.

Il filone del reality show è stato saccheggiato in ogni sua forma: a partire da un meccanismo di base se ne sono esplorate tutte le varianti possibili, puntando sull’ipertrofia e l’accumulo. Personaggi più strambi, location più eccentriche, situazioni più estreme.

Ma il risultato è che la formula dopo pochi anni è già spompata, tale è stata l’accelerazione con cui il pubblico di oggi reclama stravaganze e gli autori si impegnano a fornirle. La rincorsa esasperata dell’effetto ha stancato.


Allora la tv ha due problemi. Il primo è che i suoi stessi modelli di business stanno arrivando alla saturazione. Ed è un problema che tocca prevalentemente autori e produttori televisivi. Il secondo riguarda il ruolo culturale della tv: la creatività e persino la finalità del medium più diffuso e influente sono ostaggio delle logiche industriali. Persino Lippi a un certo punto l’ha esclamato.

Ma questa vocazione alla conservazione ormai non fa più gioco a nessuno. La televisione, soprattutto quella dei grandi ascolti, ha la possibilità di ripensarsi ed emanciparsi. Ormai ne avrà persino la necessità. Tanto più che, col passare degli anni, subisce anche un’offensiva esterna da parte dei nuovi media che attirano a sé il pubblico più attivo e consapevole.

Il mercato non aspetta. E resta la vera grande forza di trasformazione. Non è un bel procedere, ma almeno adesso si pretende un cambiamento. Non lo avevano chiesto gli spettatori e non lo volevano gli autori. Ora però i primi si stanno assopendo sui divani e i secondi dovranno impedirlo. Una sfida fra sonnolenti che pure potrebbe portare qualcosa di buono. Rimescolare l’esistente, ibridare le vecchie ibridazioni non si può più. Bisognerà davvero inventarsi qualcosa di nuovo.


(15/01/2007)