|
LAVORARE NEI MUSEI: UN’UTOPIA TUTTA ITALIANA
|
Torniamo a parlare del lavoro nei musei italiani, in particolare di “come si diventa museologo” e – attraverso il racconto della mia tragicomica esperienza – di come sia difficile, una volta acquisita la preparazione necessaria, entrare a lavorare in un museo.
|
di Claudia Pecoraro
|
In Italia, dato che la figura del museologo non è riconosciuta, non esiste neppure un tipo di formazione “ufficiale” da poter intraprendere. La Museologia, quando si è fortunati, costituisce una delle materie di alcuni corsi universitari delle facoltà di Lettere o Beni Culturali, oltre che della Scuola di Specializzazione in Archeologia e di quella in Storia dell’Arte (la situazione non è identica in tutte le università italiane); la Museografia si può apprendere nelle facoltà di Architettura o nelle Accademie di Belle Arti. Da nessuno di questi percorsi formativi si esce tuttavia con un diploma di museologo né di museografo.
Di contro, pullulano tutta una serie di stage e master, la maggior parte dei quali si rivolge agli aspetti della gestione economica e del marketing legati ai musei, e dell’organizzazione di mostre ed eventi. Tutto finisce nello stesso calderone; rari sono i master “seri” che garantiscano un corpo insegnante davvero qualificato e un tirocinio finale che superi i 15 giorni (ben diversa la situazione all’Estero!).
Per chi abbia la volontà di costruirsi una preparazione “fai da te”, la bibliografia è vastissima. Consigliabile, neanche a dirlo, approfondire quella straniera, soprattutto anglosassone, non fosse che per la ricerca che lì viene portata avanti da tanto tempo (naturalmente, con le dovute meritevoli “eccezioni italiane”). Consigliabile è anche consolidare le proprie conoscenze con una lunga esperienza diretta al museo.
Durante l’università (meglio cominciare al più presto) o appena dopo la laurea, auspicabilmente con l’appoggio di un professore che ci stima, si fa domanda in un po’ di musei, alcuni dei quali saranno ben felici di accettare nuova forza-lavoro gratis. “Bene! È la gavetta! fortunato chi non c’è passato...”- abbiamo pensato tutti, contenti di entrare finalmente nel “tempio” non dall’ingresso del pubblico ma dalla porta, che ci aveva sempre affascinato, degli addetti ai lavori.
Passa il tempo, il direttore stima molto il nostro lavoro. Terminiamo tra gli applausi la nostra ricerca, o l’inventariazione-catalogazione di infiniti pezzi che nessuno toccava da lustri (è il lavoro più richiesto a noi giovani volenterosi). Fin qui niente di nuovo all’orizzonte.
Passa ancora del tempo, ci siamo laureati (“Ora sì che mi proporranno un compenso... dopotutto hanno apprezzato il mio impegno..”), poi passano altri tre anni, ci siamo specializzati (“Eh, ora che ho questa qualifica, per giunta con questa tesi straordinaria... non mi potranno dire di no..”).
Intanto il nostro curriculum, arricchito a sufficienza (alcuni di noi hanno pure maturato un’esperienza all’Estero) sta vagando da mesi di museo in museo. Qualche istituzione statale risponde con cortesia: “Gentile Dottoressa, la ringraziamo per averci mandato il suo ottimo curriculum ma la informiamo che qui si entra solo per concorso pubblico”. Peccato che l’ultimo concorso risalga a tempi di cui non conserviamo memoria, e che di altri in programma non ce ne siano.
Poi, ecco la risposta di un museo gestito da un ente locale: “Data la sua preparazione e competenza, siamo felici di offrirle un tirocinio gratuito”. Ma io la gavetta già l’ho fatta per 2-3 anni, penso che sia ora di cominciare a portare qualche soldo a casa.... Questa è stata più o meno la mia replica a una decina di musei che mi hanno offerto l’ennesima collaborazione gratuita.
|
|
Di solito non ho ottenuto una contro-risposta, tranne in un solo caso (di cui tacerò, per ovvie ragioni, l’identità) che mi ha fatto sprofondare in un assoluto senso di impotenza: “Cara Dottoressa, lei ha perfettamente ragione, ma in questo momento il nostro museo non ha neppure un direttore perché non abbiamo i soldi per indire un bando.” Strada senza uscita!
A volte, capita che oltre al danno ci sia la beffa. Un museo accetta finalmente la mia domanda di lavoro, che naturalmente va formalizzata per iscritto per avviare tutta la burocrazia necessaria. Io scrivo, loro rispondono testualmente: “In risposta alla sua richiesta di collaborazione gratuita, siamo lieti di informarla che il suo lavoro potrà avere inizio...” La MIA richiesta di collaborazione gratuita?!? Nella mia domanda l’aggettivo “gratuito” non compariva affatto.
Da questo racconto comico-drammatico emerge che l’Italia dei musei ha una duplice realtà: l’Italia ufficiale dei funzionari pubblici, comunali, regionali etc., e l’Italia ufficiosa rappresentata dal sottobosco di giovani studenti, laureandi, laureati e perfino specializzati, usati come “volontari”, ben che vada sottopagati, il più delle volte mal coordinati, i quali invece sarebbero portatori di nuova linfa vitale, di entusiasmo, di nuove idee (e di una preparazione molto più aggiornata).
Al momento non sembra che ci siano i margini di un possibile miglioramento per questa attuale situazione, che tanto somiglia a un cane che si morde la coda. Da quando i giovani sono disposti a fare volontariato coatto, si è creato un sistema tutto sommato dotato di un suo equilibrio (perché i musei dovrebbero pagare qualcuno se c’è gente disposta a fare lo stesso lavoro gratis?).
D’altro canto, non si può rimproverare ai ragazzi l’incapacità di dire “No!” in coro e a gran voce a chi propone un lavoro con tali condizioni: piuttosto che fare niente, è meglio continuare ad arricchire a dismisura il proprio curriculum, frequentare un ambiente che potrebbe essere latore di contatti interessanti, sperare che qualcuno noti il nostro operato e la nostra preparazione.
La situazione lavorativa nei musei italiani non aggiunge purtroppo nulla di nuovo ad un problema più generale che coinvolge tutto il mondo dell’occupazione giovanile. La questione dei musei rientra per di più nell’attuale “sprofondamento culturale” in cui versano arte, cinema, musica, teatro, scuola. Il paradosso è che un Paese come il nostro non si mostri tanto lungimirante da comprendere che la cultura rappresenta una fondamentale risorsa economica, sociale e politica, degna di essere valorizzata.
L’argomento è così ampio che non può certo essere esaurito in un articolo come questo, ma l’urgenza di tale situazione è così pressante che rappresenta un invito a non tacere.
|
|
(11/12/2006)
|