L’Italia è il paese che detiene il maggiore patrimonio culturale del mondo (dati UNESCO) tanto che la nostra Costituzione è una delle poche a prevedere tra i “principi fondamentali” e tra i compiti della Repubblica (art. 9) la tutela del “patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Il patrimonio museale italiano costituisce una presenza capillare nel nostro territorio, ricchissima per quantità e varietà, e il museo ha in Italia una tradizione secolare di tutto rispetto: al 1500 risalgono i maggiori musei (vedi Uffizi); qualche esempio risale addirittura alla fine del 1400 (primo nucleo dei Musei Capitolini).
Eppure, qui sta il paradosso, in Italia (ultima ruota del carro, come spesso accade) la figura professionale del museologo non è riconosciuta, mentre in tutto il resto dell’Europa – e degli altri continenti che spesso hanno una realtà museale molto meno sostanziale della nostra – è una professione affermata da decenni.
Ma a cosa serve un museologo in museo? - si chiederà la maggior parte di voi, che probabilmente sentite nominare per la prima volta questa professione... A cosa serve un museo? – rispondo io. Questa domanda è fondamentale per capirci meglio.
Secondo la definizione dell’ICOM (International Council of Museums) “Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico e che compie ricerche riguardanti le testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente naturale, le raccoglie, le conserva, le comunica e soprattutto le espone a fini di studio, educazione e diletto.”
Conservare, studiare ed esporre, dunque, sono da considerarsi i tre compiti o lavori fondamentali che deve svolgere un museo: la conservazione di ciò che si espone è il presupposto fondamentale, naturalmente, da cui non si può prescindere e se ne occupano conservatori, tecnici e restauratori; lo studio e la ricerca, che vanno sempre promossi all’interno di un museo - che annoveri, auspicabilmente, tra le sue funzioni, quella di laboratorio attivo - sono affidati agli esperti della materia. Sul terzo punto, “esporre”, ci dobbiamo soffermare.
Con “esporre gli oggetti” noi non intendiamo soltanto “mettere in vetrina” ma “trasmettere cultura”. Trasmettere cultura vuol dire trasmettere conoscenze, valori, in un particolare contesto e con particolari modalità, e il fondamento di tale trasmissione è la comunicazione (si sente dire spesso che il museo non comunica).
L’opinione comune riguardo ai musei è quella di “torri d’avorio” della pura contemplazione, di luoghi dove regnano intellettualismi ed elitarismi, dove, per intenderci, si fatica a decifrare le spiegazioni dei cartellini che accompagnano i pezzi in mostra, da dove si esce con noia e con la schiena un po’ a pezzi per esser stati in piedi per ore, con la sensazione di non aver appreso nulla e talvolta persino con un complesso di inferiorità.
Questo accade perché gli oggetti da esporre al pubblico vengono scelti dagli esperti del settore (vedi, nei musei archeologici, le interminabili file di anfore, vasetti e terrecotte, ciascuna leggermente differente dalla precedente, utili solo agli studiosi), i quali ne scrivono anche i testi esplicativi come se li dovessero pubblicare in trattati scientifici, in cui i tecnicismi abbondano e non ci si chiede se per caso il visitatore possa non conoscere il significato di “crepidoma”, “orlo trilobato” o “zoomachia”.
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Ecco che l’intervento del museologo si fa urgente. Il museologo è una figura che conosce la storia dei musei, che ha studiato le teorie della comunicazione e la semiotica (sa di avere a che fare con le valenze simboliche degli oggetti da mostrare), che ha nozioni di psicologia (ha approfondito i processi conoscitivi: percezione, memoria, apprendimento), che è consapevole della ricaduta sociale che un museo può avere, che è stato attento a studiare i comportamenti del pubblico che frequenta quel tale museo, e che ha indagato pure le ragioni di chi al museo non intende andarci, che sa come coinvolgere, emozionare, offrire una gradevole acquisizione delle conoscenze ai visitatori.
Il museologo dovrebbe essere, naturalmente, affiancato dagli esperti del settore (l’archeologo per i musei archeologici, l’ingegnere per i musei della tecnica, etc.), così come un allestimento dovrebbe essere sviluppato in organico con il museografo, che invece si occupa della struttura architettonica, delle soluzioni espositive e tecniche, degli spazi.
Nella maggior parte dei casi italiani, gli allestimenti vengono affidati agli architetti che, non avendo nessuna nozione di museografia, privilegiano “la bella esposizione”, elegante e suggestiva, ma che non perseguono il fine comunicativo.
Fin qui abbiamo delineato alcune delle caratteristiche del “museologo ideale” che, ahinoi!, si avvicina moltissimo alle figure che lavorano nei musei all'Estero (non in Italia) dove, peraltro, nel rispetto della natura interdisciplinare del museo, si assiste alla partecipazione sinergica di varie professionalità (educatore museale, grafico museale, addetto alle pubbliche relazioni in museo, etc.) che vanno acquistando sempre più specificità e rilievo.
In Italia, purtroppo, il museo rimane una struttura gestita da esperti e indirizzata ad esperti, i quali hanno tradizionalmente l’autorità professionale e difficilmente si aprono a un dialogo con una comunità altra. Né sono disposti a trovare soluzioni diverse di comunicazione al pubblico, pensando che un linguaggio diverso da quello “elevato” a cui sono abituati produrrebbe na “semplificazione” che sminuirebbe il museo stesso.
Il personale dei musei, peraltro, continua a mostrare una imperitura resistenza a condividere le decisioni con individui o gruppi che sono al di fuori dell’istituzione: l’attenzione per il pubblico, soprattutto quello potenziale, è pressoché assente.
Mentre nel resto d’Europa, i registri per i commenti al termine della visita rimangono sempre a disposizione dei visitatori, e le loro opinioni (raccolte anche attraverso interviste e questionari) vengono considerate preziose per il miglioramento della struttura, in Italia si nicchia su ogni eventuale critica negativa e le pratiche quotidiane dei nostri musei rimangono elitarie, poco democratiche ed esclusiviste.
Gli attuali dirigenti dei musei italiani potrebbero replicare che le cose attualmente vanno benissimo, dal momento che mostre e musei sono frequentatissimi come mai lo sono stati in passato. Ma bisogna saper distinguere il successo artificioso e spesso immeritato di tantissime mostre che offrono sì ampia risonanza e visibilità, e che attraggono in un breve periodo interessi economici, politici e solo marginalmente culturali.
I musei possono ispirare, educare, informare, raccontare storie; possono stimolare la creatività, allargare gli orizzonti, aprire le persone a nuovi modi di guardare il mondo, combattere gli stereotipi, generare emozioni, progetti, ricordi.
Finché la figura del museologo non entrerà a far parte a pieno titolo dei musei italiani, questi ultimi non si apriranno mai ai dibattiti internazionali di museologia che proseguono con ritmo incalzante da svariati decenni.
E i musei italiani rimarranno “mausolei”, santuari per iniziati, anziché luoghi del sapere, attivi e frequentati, rivolti a individui di ogni classe sociale, di ogni fascia di età e di ogni livello culturale.
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