|
I QUARANTANOVE RACCONTI
|
ERNEST HEMINGWAY
In una ipotetica antologia dei migliori racconti del novecento un posto di primo piano lo occuperebbero sicuramente alcuni di Hemingway contenuti nella celebre raccolta dei Quarantanove racconti.
|
di Gianluca Traini
|
Pochi narratori del Novecento hanno esercitato durante la loro vita una influenza stilistica pari a quella di Ernest Hemingway.
I tratti caratteristici della sua scrittura secca e chiara, senza sbavature, in cui il dialogo era spesso il mezzo principale per rivelare i personaggi più delle loro stesse azioni, e che miravano a “rendere viva la sensazione della vita”, a “far udire, far sentire, far vedere” la realtà, furono imitati in tutto il mondo, anche al di là dei confini linguistici dell’inglese.
Basti pensare all’influenza che ebbe lo stile di Hemingway sulle prime prove letterarie di due autori nati negli anni venti, destinati, ognuno a suo modo, a liberarsi durante il corso delle loro opere della “maniera” hemingwayana inizialmente appresa: Gabriel Garcia Marquez e Italo Calvino.
Tra le opere di Hemingway un posto di primo piano lo occupa la raccolta di storie I quarantanove racconti, la cui edizione più recente in italiano è quella uscita nei classici Mondadori con la traduzione di Vincenzo Mantovani.
Nei Quarantanove racconti, raccolti e ordinati dallo stesso Hemingway nel 1938, lo scrittore americano tocca il culmine della sua arte narrativa. Infatti nei racconti Hemingway si esprime più efficacemente che nei romanzi, perché la misura breve è narrativamente più congeniale al severo dominio tecnico che lui impone al suo linguaggio semplice ed essenziale, alla sua prosa che, in una celebre intervista, lo stesso Hemingway affermò fondata “sul principio dell’iceberg” : “Cerco sempre di scrivere sul principio dell’iceberg. Ci sono sette ottavi di iceberg sott’acqua per ogni parte visibile. Tutto quello che si sa lo si può eliminare e questo non fa che rinforzare l’iceberg. È la parte che non si vede”.
|
|
Questo principio portava Hemingway durante la scrittura a togliere piuttosto che ad aggiungere, ad omettere piuttosto che a spiegare. Così facendo molti dei suoi racconti trovano il loro meglio, come osserva acutamente Garcia Marquez, “nell’impressione che suscitano di qualcosa in meno”, di qualcosa che manca e che finisce per “conferire loro mistero e bellezza.”
Come in ogni raccolta, anche qui ci sono dei racconti che catturano l’attenzione del lettore più di altri, che sembrano invece scivolare via. C’è chi preferisce il nucleo dei racconti di Nick Adams, alter-ego dell’autore, chi rimane abbagliato dalla diretta e dura concezione della vita espressa nella Breve vita felice di Francis Macomber, chi non smette di rileggere il dialogo teso e indimenticabile di Colline come elefanti bianchi, e così via.
Anche noi, per parte nostra, se fossimo obbligati a scegliere un racconto non avremmo dubbi; sceglieremmo quello in cui si rispecchia in maniera più memorabile l’incubo del nulla che assediò Hemingway fino alla morte: Un posto pulito, illuminato bene. Mai come in questo breve racconto di appena cinque pagine, contraddistinte da una quotidiana lucidità disperata, abbiamo ritrovato di fronte ai nostri occhi la visione di quel niente che conosciamo “troppo bene”, quel niente di cui paradossalmente siamo fatti e con il quale in certe notti insonni ci ritroviamo a fare i conti.
|
|
(12/08/2004)
|