BABEL
TITOLO ORIGINALE: Babel REGIA: Alejandro Gonzalez Inarritu CON: Brad Pitt, Cate Blanchett, Gael Garcia Bernal, Koji Yakusho, Adriana Barraza, Rinko Kikuchi DURATA: 144’ USA 2006 GENERE: Drammatico VOTO: 8 DATA DI USCITA: 27 ottobre 2006
di Giancarlo Simone Destrero
Susan, una turista americana in viaggio nel Marocco con il marito, viene ferita gravemente da un colpo di fucile. A spararlo è un giovane pastore marocchino che, incautamente con suo fratello, sta provando l’arma. Il fucile apparteneva in origine ad un uomo giapponese appassionato di caccia. Le polizie locali si mettono alla ricerca dei responsabili. Nel mentre i due figli di Susan e Richard vengono accuditi da una badante messicana che non può assolutamente mancare al matrimonio di suo figlio…

Quello che resta subito impresso di questo bel film di Alejandro Gonzalez Inarritu è il salto dimensionale delle sue storie convergenti. Se in Amores Perros e in 21 grammi si indagava l’essere umano nella sua realtà locale, Stati Uniti o Messico, questa volta il discorso è esteso su scala planetaria.

Tre situazioni ambientali, tre diverse contingenze culturali, che si collocano latitudinalmente equidistanti, nell’intenzione di analizzare il mondo da occidente ad oriente a trecentosessanta gradi. Il confine tra Stati Uniti e Messico, il Marocco ed il Giappone. Tre realtà distanti, quattro lingue differenti, altrettante diverse tradizioni culturali. Eppure vi è un’unica radice comune, una medesima fonte originaria dalla quale si sperimenta lo stesso dolore, lo stesso senso di colpa, nella pesantezza di attraversare il comune destino della condizione umana.

Quattro lingue differenti, si diceva, per ogni realtà locale che viene filmata. Una divisione babelica che ha apparentemente allontanato gli uomini per sempre. Eppure, nonostante quest’ostacolo, questa punizione nell’allusione biblica del titolo del film, gli uomini rimangono legati tra loro nella sostanza del loro stato esistenziale. I personaggi di questo film sono tutti individui che rifuggono la solitudine e che farebbero di tutto per essere amati, aldilà delle circostanti strutture sociali.

Sono degli uomini e delle donne pervasi dal senso di colpa che li attanaglia per gli eventi che, ineludibilmente, la vita ha posto sul loro cammino. Eventi negativi certo, perché l’esistenza umana è un coacervo incontrollabile di accadimenti in un equilibrio costante tra bene e male, ed il male segna inesorabilmente le loro coscienze. Eventi casuali che irrompono inaspettatamente.

Eppure la casualità, in questo e negli altri due lungometraggi del regista messicano, sembra dare un ordine preciso alle cose, le fa combaciare perfettamente come se fosse guidata teleologicamente da qualcosa che è inaccessibile all’individualità umana. Una superiore onniscienza che struttura il cinema di Inarritu.

Questo è il livello spirituale del film, che si riscontra anche nella dimensione temporale. Un tempo gravoso, un respiro ampio che si dilata nella lunghezza filmica, nelle lunghe sequenze raccordate da inquadrature d’attesa, da immagini statiche e penetranti il volto umano.


Immagini che sono sì funzionali allo sviluppo dell’azione e che servono ad introdurre il repentino momento di crisi del racconto, ma che hanno un intrinseco valore allusivo d’alterità cinematografica, rispetto a quelle che sono le mere regole della narrazione. Eppoi la storia: la coppia americana in crisi in viaggio nel Marocco, la badante messicana ed il suo difficile pendolarismo tra il Messico e gli Stati Uniti, la povertà dei due pastorelli marocchini, la ragazza giapponese sordomuta ed i suoi problemi esistenziali dopo la morte della madre.

E qui c’è l’Inarritu più politico. Quello che critica, senza mai indugiare troppo da una parte a scapito dell’altra, la ferrea burocrazia degli Stati Uniti nei confronti delle brave persone messicane, la rigida e ottusa testardaggine delle forze dell’ordine di qualunque paese, le aberrazioni giovanili dell’occidentalizzazione giapponese. L’oggetto che mette in contatto queste diverse esistenze è un fucile che, tramite una staffetta, arriva dalle mani del padre della ragazza giapponese fino, tramite i suoi proiettili, al corpo della turista americana.

E qui il contrappunto culturale del suddetto legame strutturale degli uomini, sembra essere una globalizzazione violenta generata dalle armi e dal cinismo spietato dei media. Quest’ultimi, infatti, allargano il mondo in un grande paese virtuale dove le informazioni arrivano subito, ma la sostanza di esse viene completamente ignorata a beneficio di una rincorsa alla notizia fine a se stessa.

Straordinaria, infine, la capacità di mantenere costantemente in primo piano la solitudine dell’individuo e la sua alienazione, passando disinvoltamente da contesti naturalistici e rurali a contesti iperurbanizzati e caotici.


(17/11/2006)