LAVORANDO NOBILMENTE
Il lavoro nobilita l'uomo, ma la nobiltà come poteva essere nobilitata dal lavoro se non lo svolgeva? Un dilemma, di cui ci parla, ironizzando, Giuseppe Parini ne "Il Giorno".
di Azzurra De Paola
Giuseppe Parini fu l’emblema della poetica italiana del Settecento: nato in povertà e poi divenuto precettore al servizio del duca Gabrio Sarbelloni, Parini celebra un mondo nel quale – ai suoi occhi – regnano gentilezza e buone maniere, raffinatezza di gusti e sontuosità.

Nonostante ciò, lo scrittore ben si rendeva conto della vacuità di talune manifestazioni e del pericolo latente dell’ostentazione e dello sfarzo: “A voi celeste prole a voi concilio/ almo di semidei altro concesse/ Giove benigno: e con altr’arti e leggi/ per novo calle a me guidarvi è d’uopo” . Nel 1970 iniziò la sua più celebre opera, rimasta incompiuta, Il giorno: qui, Parini si immagina precettore di un giovane aristocratico cui deve insegnare come figurare al meglio nella società vacua di cui fa parte.

Una vita all’insegna del non-lavoro, una vita senza scopi e senza aspirazioni. L’immobilità dell’essere. Assistiamo, tra sottili ironie e critiche severe, alla lunga contemplazione delle toilettes, alle passioni corrotte, alle frivole conversazioni, ai giochi noiosi di una classe oziosa.

Abbiamo la figura stereotipata di un giovin signore di cui Parini si immagina precettore, la cui giornata inizia in tarda mattinata - a differenza dei lavoratori che devono alzarsi presto. Il nostro nobile eroe trasuda grazia in ogni suo gesto, una grazia propria della sua stirpe: si stropiccia gli occhi, sbadiglia e dopo aver risolto il dilemma tra il caffè e la cioccolata, si dedica alle lezioni di ballo, canto, musica e lingua francese: “poi de’ labbri formando un picciol arco/ dolce a vedersi tacito sbadiglia”.

Al momento di lavarsi ed incipriarsi è bene, dice l’educatore, che il giovane rivolga un pensiero all’amata: “e il maestro elegante intorno spande/ da la man scossa polveroso nembo/ onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.

Dopo tutto questo, accoglie la sua dama e la intrattiene con le arti della civetteria: il loro incontro è tenero e manierato e benché i discorsi concordino sulle idee dei nuovi filosofi (gli illuministi) si bada bene che non si giunga a proporre un’uguaglianza sociale. Dopo una mensa sontuosa, ci s avvia verso qualche festa in case patrizie: qui, dame più anziane si esercitano nell’arte della galanteria mondana benché la loro corruzione trasudi dietro il loro studiatissimo garbo; l’abilità della padrona di casa sta nell’assegnare i posti a tavola, mettendo ad esempio due rivali una di fronte all’altra.

Parini pone l’accento sulla vacuità che intride ogni briciolo di interesse di questa nobiltà a lui contemporanea. Non c’è lavoro, non c’è attività: il mondo dei nobili è un mondo fermo, senza cambiamenti, senza ambizioni. Una vita rassegnata nella propria condizione.

E se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, se è vero che la mente ha bisogno di pensare, si assiste qui alla decadenza dell’intellettualità. L’opera, la poiesis di Aristotele, sono lontani ed appannati fantasmi di un altro mondo – quello dei lavoratori – che non scalfisce l’intangibile stato di grazia dei nobili di quell’epoca. “S’oggi a te giova/ porger dolci a lo stomaco fomenti/ onde con legge il natural calore/ v’arda temprato, e al digerir ti vaglia/ tu il cioccolate eleggi[…] ma se noiosa ipocondria t’opprime/ o troppo intorno a le divine membra/ adipe cresce, de’ tuoi labbri onora/ la nettarea bevanda ove abbronzato/ arde e fumica il grano a te d’Aleppo giunto o da Moca”.


(09/11/2006)