Il lavoro di sottrazione degli elementi teatrali dal palcoscenico continua, nel percorso artistico di Peter Brook. Questa volta grazie al connubio con il cosiddetto teatro delle townships, ossia quello che racconta la vita quotidiana delle comunità urbane di colore nel Sud Africa dell’apartheid.
Sizwe Banzi est mort è, infatti, una commedia scritta da Athol Fugard, autore sudafricano dal quale è stato tratto recentemente il film Il suo nome è Tsotsi, insieme a John Kani e Winston Ntshona. E’ un teatro viscerale, questo delle townships, dove la povertà di mezzi rende necessario disporre di una straordinaria capacità comunicativa a livello corporeo.
Una spontanea carica di energia esistenziale, necessaria per sopravvivere nei ghetti sudafricani, che viene incanalata nell’arte affabulatoria dei narratori di strada. Così, infatti, erano riportate le storie drammatiche che i neri africani vivevano – e vivono tuttora purtroppo - sulla loro pelle: cercando di dare leggerezza, brillantezza e sequenzialità a delle situazioni disumane, caotiche, dove la dignità umana viene perennemente calpestata.
Brook parte da questo potente e coinvolgente teatro di strada per darci un altro esempio di come siano il corpo dell’attore e la sua mimica, la verità essenziale del teatro, o almeno del suo teatro. Sulla scena due attori e poco altro. Un paio di attaccapanni, qualche cartone, una scopa. Il primo attore, uno straordinario Habib Dembélé, è il personaggio principale, Styles, che ci introduce nel racconto con uno spassoso monologo.
Egli entra improvvisamente sulla scena e si presenta. Con delle movenze felpate ed una capacità mimica fuori dal comune ci racconta la sua “giornata-tipo” fatta di viaggi in autobus e pulizie sul posto di lavoro, in attesa che arrivino i padroni dell’azienda per i quali lavora. Lui è un operaio in una fabbrica di auto della compagnia Ford. Già in questo monologo si percepisce come una situazione razzista e di forte ingiustizia sociale sia raccontata con una paradossale ma incisiva vena brillante.
Merito anche di una sobria regia che si concentra tutta nei movimenti del poliedrico attore, che riesce a toccare picchi di irresistibile comicità mentre evoca tutto il clima della catena di montaggio, dello sfruttamento degli operai da parte dei padroni dell’azienda, della scarsa sicurezza sul posto di lavoro. Il tutto impersonando più ruoli, alludendo con la gestualità del corpo a quello che racconta, rifunzionalizzando, ad esempio come porta, un attaccapanni scorrevole.
Deciso a cambiare mestiere, egli prova a coltivare la sua passione e diventare fotografo. Qui viene introdotto il secondo attore, il personaggio Robert. Da qui in avanti viene fuori tutta la semplice grandezza del regista inglese. Grazie a dei piccoli cambi di scena, ottenuti attraverso veloci spostamenti dei pochi oggetti presenti sul palco da parte degli attori, a degli ovattati cambi di luce e all’utilizzo di alcuni abiti appesi agli attaccapanni, andiamo a ritroso nella vicenda. Scorre talmente tutto liscio che sembra molto banale quello che sta succedendo.
In realtà, partire dallo studio fotografico di Styles per poi tornarci nell’ultima scena della pièce, passando attraverso le varie peripezie di Sizwe con dei flashback che spiegano il perché della sua nuova identità, è un processo drammaturgico che -senza intervalli di sipario- può facilmente rovinare un lavoro. Invece si viene semplicemente catturati dalle atmosfere di Brook che ci trasportano in una realtà cruda e pericolosissima, che è percepita alla perfezione, pur rimanendo in uno stato di narrazione fiabesco, quando i due personaggi sembrano uscire da un varietà musicale. Così come semplice e perfetto è il ritrovamento del cadavere che porterà allo scambio di identità: Sizwe-Robert. Questo viene svelato grazie ad una scarpa da ginnastica con cui Styles esce da dietro un cartone dove si era appartato per espellere i propri bisogni.
Portandola a Sizwe gli rivela che stava orinando su un morto ed arriveranno così al suo pass di soggiorno.
Spettacolo politico, sicuramente, di denuncia sociale, che porta alla ribalta un teatro africano poco noto, ma che sposa appieno la sostanza artistica di Peter Brook, caratterizzata dallo spazio sempre più vuoto e dall’attore come epicentro scenografico.
Dove Teatro Tor Bella Monaca, Roma
Quando 8-11 Novembre 2006, ore 21. 11 Novembre ore 17 e ore 21
Biglietti Euro 8 intero, Euro 5 ridotto (sopra 65 anni e sotto i 26, studenti universitari) Euro 1 (scuole e ragazzi fino ai 14 anni)
Telefono062010579 (dal Lunedì al Sabato dalle 10.30 alle 18.30)
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