SALUTO A CARTIER-BRESSON: LIBERTA' DALLA PAROLA E POTERE DELLE ISTANTANEE
Si è spento lunedì scorso, a Isle sur la Sorge, nel meridione francese, Henri Cartier-Bresson, un grande della fotografia europea moderna, considerato il padre del reportage contemporaneo, un uomo dalla grande sensibilità che ha messo l’arte a servizio della realtà. Noi lo ricordiamo così.
di Claudia Bruno
“E’ morto Cartier-Bresson, aveva 95 anni”, “Addio a Cartier-Bresson, padre della fotografia”. Recitano queste parole le testate dei maggiori quotidiani, la mattina del 4 agosto 2004. La notizia, resa nota dai più intimi amici del fotografo soltanto due giorni dopo la morte, ha commosso tutto il mondo.

Ma chi era, o meglio chi è Cartier-Bresson? Se ne va così, in un improvviso silenzio, immediatamente pronto a fare rumore, come l’otturatore di una vecchia Leica, capace di catturare in un attimo l’essenza di una situazione. Muore, con i suoi bei 95 anni di vissuta sensatezza, dopo una vita dedicata all’immagine, al disegno, al cinema, alla fotografia. Scompare nella pace della sua camera oscura, il ritratto del mondo nel cuore, la consapevolezza di non poter lasciarlo mai, questo mondo. Chissà quante volte l’ ha guardata negli occhi, la morte, chissà quanti uomini gli sono caduti davanti, svelandogli l’incomprensibilità del passaggio ad un’altra dimensione. Fatto sta che il maestro della fotografia moderna, lascia a noi sopravvissuti mezzo secolo di storia. Dalla guerra civile spagnola alla liberazione francese dai tedeschi, ai famosi reportages degli anni ’50 in estremo Oriente. Scene non raccontate dai paragrafi dei manuali, né dalla finzione dei canoni formali della fotografia “accademica”. Forse è per questo che in un’intervista inedita a Le Monde si era definito un surrealista della realtà, tenendo a sottolineare con un tocco di sarcasmo che “essere surrealisti non è mettersi un bidone della spazzatura in testa”.

La passione per ciò che è immagine, sembra accompagnare l’artista fin dall’adolescenza, quando iniziato alla pittura grazie all’influenza dello zio, diventa allievo di Jaques-Emile Blanche e André Lhote. Ma è solo dopo un viaggio in Costa D’Avorio, nel ’31, che Bresson decide di dedicare tutto sé stesso alla fotografia. 23 anni e una Leica per amico, lo accompagnano quindi nei suoi viaggi in Italia, Spagna, Messico e Francia durante i quali realizza gli scatti più famosi, quelli che gli permettono di sviluppare la sua teoria dell’attimo decisivo, conquistandosi così la nomea di maestro delle istantanee e della moderna maniera di fare reportage. Le numerose mostre ed esposizioni che nel corso degli anni gli hanno reso onore, non sono state altro che preziose collezioni di momenti in bianco e nero, paesaggi, eventi, ritratti di celebri personalità (Sartre, Matisse, Beckett, Beauvoir, Monroe, Che Guevara…), legati analogicamente gli uni agli altri, come ricordi impressi e non cancellabili nella memoria collettiva della nostra società. Basti pensare alla mostra allestita al Museum of Modern Art di New York nel ’47 in seguito alla falsa notizia della morte in guerra del fotografo, fino ad arrivare alla mostra celebrativa dei suoi novant’anni intitolata “Gli Europei”, che comprendeva foto scattate dagli anni ’30 agli anni ’70 e che ha girato tutto il mondo.


Certo non si può dimenticare che l’impeto e la voglia di avventura di quegli anni, non solo permisero al fotografo di sfiorare luoghi in cui l’occhio comune non sarebbe potuto giungere, ma gli consentirono di intraprendere una delle esperienze lavorative più invidiate nel mondo della fotografia. Insieme ad alcuni suoi amici e colleghi tra cui Robert Capa e Chim Seymour (conosciuti nel periodo di collaborazione al quotidiano comunista francese Ce soir, di Louis Aragon), decise infatti di dare il via a quella che sarebbe diventata l’agenzia fotografica più importante del mondo, fondando la Magnum Photos nel ’47.

Pur essendosi affermato come modello da seguire in campo fotografico, Bresson non ha tuttavia mai abbandonato il suo amore per la pittura, e lo dimostrano non soltanto la scelta di tornare ai pennelli negli ultimi anni di vita, ma anche le copertine delle sue raccolte: Matisse per “Images à la sauvette” del 1952, Mirò per il volume “Les Européens” del 1955.
Nelle sue istantanee, però, non trova spazio il colore, né la parola. Così l’essenza di ciò che è stato, nella sua tragicità ed estrema bellezza, si fa strada nella memoria dell’osservatore, tra ciò che è bianco e ciò che è nero, nell’oggettività di un’immagine pura, libera da commenti forzati, e per questo suscettibile ad interpretazioni opposte, accompagnata al massimo da una scarna didascalia di data e luogo.
“Le mie foto sono un’osservazione intuitiva del mondo esterno. - afferma Bresson in un discorso riportato sulla rivista Photo (giugno 1975) per presentare alcune foto inedite da lui preferite - Esse derivano dall’inconscio e dalla sensibilità, non da un concetto o da un’idea.”
Eccole le foto che Bresson ritiene più preziose, non didascalizzate, parlano da sole: gambe eleganti intrecciate di una donna che legge in penombra, cumuli di macerie, bambini che corrono felici sul marciapiede di una strada percorsa da un carro funebre, nudità che prendono il sole, malati malformati sorpresi a dormire nella miseria di scale di pietra.
“Sono un fotografo da marciapiede, il mio mestiere è nella strada, la mia conoscenza è intuizione”, niente regole dunque, se non quella di lasciarsi stupire dalla spontaneità dell’accadere, fotografare l’errore.

Insomma, ci piace ricordarlo così: poetico, sensibile, essenziale, curioso, immortale nei suoi scatti.
Ma queste sono solo parole, inutili, vincolanti “sviolinature” come amava definirle lui. Forse è arrivato il momento di meritato silenzio. Che parlino le immagini.



(09/08/2004)