CHI NON LAVORA NON FA L’AMORE, E CHI LAVORA?
Davanti all’attività lavorativa che ci permette di accedere ai circuiti sociali, di conquistare affermazione, di comprare divertimento, gli affetti passano letteralmente in secondo piano, come la voglia di godere della propria fisicità insieme alla persona che ci rende vivi. A parlar d’amore sono rimasti i poeti, a farlo sono rimasti in pochi.
di Claudia Bruno
Era la moglie economicamente insoddisfatta di una canzone passata, a minacciare il marito con un "chi non lavora non fa l'amore". Oggi, forse, chi non lavora non farà l’amore perché non ha una casa, e fuori non ci sono più campi sotto le stelle ma solo asfalto sotto i lampioni. Resta il fatto che il tizio in questione avrà probabilmente molto più tempo e gioia di farlo rispetto a chi vive a pacchetti da otto ore, come a dire: chi ha il pane non ha i denti.

Il lavoro rende liberi, liberi da che cosa è difficile capirlo. Liberi di togliersi ogni sfizio, liberi di avere sempre una qualche forma di denaro in tasca, quindi liberi di partecipare alla vita sociale, di accedere ai suoi circoli viziosi, di accumulare beni, o meglio, di consumarli freneticamente. Già la supremazia della sfera lavorativa rispetto a quella politica era stata indicata dalla Arendt come caratteristica principale della modernità; oggi sembra piuttosto che l’effetto maggiormente evidente della questione sia un incremento di progetti di vita basati su aspettative lavorative, a scapito della sfera delle relazioni affettive in genere.

Insomma, in questo mondo sappiamo di essere capitati più per offrire forza lavoro che per offrire amore. L’amore è un’idea dall’aria fiabesca inventata dai poeti per far rima con cuore, e cantata da rockstar passate di moda. Se proprio lo volete andatevelo a comprare. Anche perché coltivarlo di persona sarebbe un po’ difficile, avrebbe bisogno di cure ed attenzioni che, lavorando otto ore ufficiali più almeno quattro spese nel traffico e a rimediare eventuali errori di stanchezza, non potreste assolutamente permettervi.

Vi restano sì e no otto ore per dormire, tre per mangiare e una da spendere in piaceri che non riuscite più a gustare perché siete troppo disincantati per creare qualcosa senza che qualcuno ve lo ordini prima, e così decidete di passarla davanti al televisore. L’amore, figuriamoci! Roba da ventenni ingenui e appassionati, che, quelli sì che sono bei tempi, ma poi non tornano perché mica la vita è tutta lì. La vita è un’altra cosa. Lavorare, allora sì che ci si prende le proprie responsabilità, che si diventa uomini, e donne.

Preferiamo piuttosto guardarlo, nei ritagli di tempo, l’amore. L’amore delle soap, dei reality, quello al cinema, persino in pubblicità. Ma per farlo noi, troppa fatica, troppi rischi. Del resto è normale, è tutto il giorno che lavoriamo, dopo altri cinque così arriveremo sfiniti dritti sul divano, giusto per riprenderci durante il week-end. Il problema è che il lavoro non solo stanca, sarebbe il minimo. Ci sono donne e uomini disposti a lavorare notte e giorno per mesi, pur di fare carriera. Il lavoro sfinisce l’iniziativa qualora non retribuita. È questo il dramma.

Fare l’amore diventa una prestazione senza un guadagno abbastanza consistente da convincerci che ne valga la pena. Una prestazione gratis, per intenderci. Come sarebbe a dire? Siamo in grado di creare un piccolo universo in cui l’unico modo di provare piacere è darlo. Non ci piace, siamo fuori dall’industria del divertimento. Meglio comprare immagini già confezionate da consumare in brevi attimi di solitario auto-erotismo. O pagare chi il sesso lo fa per lavoro. D’altra parte il lavoro ci ha insegnato anche questo, ad essere indipendenti.

E poi fare l’amore, rispetto a del semplice sesso, implica tutta una serie di continuità affettive tra due persone, la consapevolezza di poter costruire qualcosa insieme che ha il sapore di intimità piuttosto che la forma di una società per azioni. Chi lavora oggi non può. Non può concedersi a tali spiritualismi. Mobilità e flessibilità sono i comandamenti, non ci si può certo limitare a lavorare nello stesso posto per più di due anni, a vivere nella stessa città per più di tre. Siamo nell’era della globalizzazione, mica nel medioevo.

Anche le indagini più recenti sui neo-laureati entranti nel mercato del lavoro, confermano che la maggior parte è molto predisposta ad un’attività lavorativa fatta di trasferte. Insomma, nessuno ha più qualcosa di così importante che gli impedisca di partire, tanto c’è Internet, e i telefonini: qualsiasi cosa sia…aspetterà. E poi il mondo è pieno di gente, ad ogni trasferta ci sarà qualcun altro a tenerci compagnia. Perché, tra le persone, una vale l’altra ed è più importante accumulare esperienza lavorativa sul campo, che godere della propria fisicità insieme all’altra metà della mela.

L’ossessione ormai anonima di diventare qualcuno sovrasta le nostre pulsioni primordiali proprio nel fiore degli anni in cui troverebbero miglior realizzazione. Intraprendenza lavorativa? Bah, ci sarebbe da discutere, fatto sta che tutto il resto diventa meno importante, passioni, affetti e vita di coppia inclusi. Così, passa in secondo piano anche la voglia di godere del proprio essere uomini e donne, la bellezza della creatività biologica che ci rende vivi, e, anche tra i giovani, di sesso si parla fin troppo - magari proprio a lavoro - ma a fare l’amore son rimasti in pochi.



(*) Immagine: René Magritte, Les Amants (1928)


(27/10/2006)