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LAVORO COME ULTIMA DELLE SCHIAVITU': UN PENSIERO POCO PERBENE
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Dopo la "visione positiva" del lavoro, ecco una critica feroce alla società impostata su di esso, e a favore della riscoperta del tempo libero e del sè.
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di Daniela Mazzoli
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Il lavoro è l’ultimo grande tabù del mondo occidentale. Non ne sono rimasti altri. Si può fare tutto tranne smettere di lavorare, o peggio ancora non voler nemmeno iniziare. I tabù sessuali sono ormai ricordi di un secolo fa, direi per fortuna. Le tavole di Mosè sono state aggirate con filosofica abilità e un certo allargamento di braccia come a dire ‘vabbè, ma io proprio che posso farci se..’.
Il mondo va così, siamo abbastanza rassegnati da capire (e giustificare) quasi ogni umana e inumana debolezza. Da un lato questo ci rende più civili e meno ideologici, dall’altro ci toglie ogni forza di reazione a fatti e comportamenti che minacciano la nostra e altrui felicità. Eppure, in mezzo a tanta elasticità e piccole cialtronerie un monolite resiste tra i luoghi comuni: chi non lavora è un lavativo.
E’ un mantenuto, un ignavo, un essere poco utile a sé e agli altri. Un pigro come minimo, un furbo sicuramente. Destinato a diventare un ozioso, forse anche un delinquente. Non dico di chi cerca e non trova un lavoro (e anche in quel caso i proverbi contro lo sventurato si sprecano) ma proprio di quelli che a lavorare non ci pensano. E’ questa l’unica delle azioni umane universalmente avvertita come criminosa. Curioso no? Si è disposti a chiudere un occhio persino sugli scaldasedie, su quanti cioè vanno ad occupare un posto unicamente in senso fisico e senza nessuna utilità reale, ma non su quanti –forse meno ipocritamente- quel posto lo lasciano libero consapevoli di non essere ‘tagliati’ per certe incompetenze…
Poche sono le cose che ancora ci identificano: lievemente le convinzioni religiose o politiche, poco il ceto sociale e il livello di istruzione quando c’è, quasi niente le virtù umane, le attitudini personali.
Domina certamente lo stato economico e diciamo implicitamente il ruolo nel mondo del lavoro. Ecco, ciò che agli altri dice moltissimo di noi è il lavoro che facciamo. Giusto o ingiusto che sia, la nostra professione diventa un filtro, facile e accessibile, per capire con chi abbiamo a che fare.
Ci si fa davvero un’idea dell’interesse che una persona veicola a partire dal lavoro che svolge. Avvocati, commercialisti, direttori di banca; impiegati, commercianti, parrucchieri, edicolanti; ristoratori, ballerini, camerieri, maestre d’asilo: una conversazione per ogni categoria, una domanda diversa sulla vita di ognuno, argomenti possibili di condivisione a seconda del tipo di vita supposto in base al reddito.
Chi non lavora, invece, crea un certo disagio, un imbarazzo. Nell’interlocutore intanto: che non sa se può informarsi sulla questione. Nel caso che sia impossibilità meglio non aprire ferite e glissare delicatamente verso altri temi. Nel caso, invece, che non sia sfortuna ma volontà allora l’imbarazzo diventa rabbia soffocata, astio mascherato dietro l’ombra di qualche salace battuta.
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C’è un odio sottile verso chi –per scelta non sempre consapevole o per privilegiate condizioni economiche- non accede al mondo del lavoro. Come mai?
In fondo, a patto che sappia poi come cavarsela e non venga ad elemosinare cene dagli amici, è più affar suo che nostro come passa le giornate, in quale noia… Ci fa saltare i nervi o girare la testa una specie di invidia, il constatare che ci sia qualcuno indisponibile a subire la più arcaica e imbattibile delle schiavitù.
Il lavoro nobilita l’uomo: eppure nella tradizione biblica l’uomo non nasce per lavorare ma per godere, senza il bisogno di doverseli guadagnare, i frutti di un perfetto giardino paradisiaco. Il lavoro viene dopo, l’equivalente dei dolori del parto, una punizione insomma, una cosa umiliante, per ricordargli che ha fatto un errore ed è giusto che paghi così, col sudore della fronte.
Niente di particolarmente nobile, dunque, o nobilitante. Oggi la psicologia fa da zeppa all’incapacità politica di farci lavorare meno (il necessario) sostenendo che nel lavoro l’uomo e la donna esprimono se stessi e trovano un senso, la realizzazione. Vaglielo a spiegare ai raccoglitori di pomodori del salentino, agli asfaltatori di strade e persino agli odiosi ausiliari del traffico che il senso della propria vita è in quello che fanno durante la giornata prima di infilare la chiave nella toppa di casa!
O anche ai milioni di impiegati che sentono ogni giorno allargarsi il sedere davanti a lettere ed appunti scritti per superiori più ignoranti di un modesto usciere. Ore e ore inutili, passate a perdere se stessi e a non pensare quale sia il senso, reale o immaginario, della propria vita.
Non dico tanto ma una riduzione della pena, questo sì. La metà del tempo è sufficiente per l’80% delle professioni attuali. Siamo o no nell’era della comunicazione e del virtuale? Eppure lavoriamo ancora con i ritmi e i tempi dell’ottocento industriale.
Allora si arrivava, con grande scandalo dei sindacati rivoluzionari, alle sedici ore giornaliere. Oggi sento spesso di liberi professionisti che toccano le tredici ore di lavoro. Gli impiegati anche nove, dieci (ma senza dirlo perché non sarebbe nemmeno legale).
Mi chiedo come mai il sistema sociale abbia bisogno di tenerci tanto impegnati con certe frustrazioni da gerarchia spicciola, come mai il sistema economico sostenga e incoraggi tutto un mercato dello svago e dell’evasione quando per farci star meglio basterebbe lavorare due ore in meno ogni giorno, potersi occupare dei figli, del coniuge, dei propri genitori senza ricorrere a baby sitter, segretarie e badanti (impiegate anch’esse inutilmente)?
Cosa accadrebbe se gli individui usassero davvero il lavoro come un sostentamento di responsabilità verso se stessi e gli altri e nel resto del tempo fossero liberi di interrogarsi su piccole e grandi questioni personali? A danno di chi andrebbe tutto l’eventuale mettersi in moto di anime, la riappropriazione di tante esistenze, il moltiplicarsi di benesseri famigliari e l’approfondirsi di rapporti umani? Meno stressati, quale potere faremmo crollare?
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(12/10/2006)
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