MEMORIE DI UNA RAGAZZA PERBENE. DI SIMONE DE BEAUVOIR
SIMONE DE BEAUVOIR

Simone de Beauvoir fu compagna di Jean.Paul Sartre per tutta la vita e, come lui, scrisse una rielaborazione del passato. Con occhi di donna riguarda a se stessa bambina e racconta in pagine filosofiche e letterarie lo scontro con la classe sociale d’appartenenza – una borghesia conservatrice e moralista –, le prime tensioni sentimentali, il primo passo verso la scoperta di sé, il suo compagno che l’accompagnerà per tutta la vita, i primi approcci al femminismo e l’amicizia con Simone Weil e Merleau-Ponty.

di Azzurra De Paola
L’incipit e la struttura del testo somigliano in tutto al romanzo autobiografico del compagno Sartre, “Le parole”, e si sviluppano in una scansione accurata dell’infanzia e della scoperta delle attitudini. Emerge, a differenza del testo suddetto, una sensibilità tutta femminile ed un approccio alla realtà diverso per condizione di sesso e di famiglia: Simone non difende la propria solitudine di figlia unica come Sartre, perché lei ha una sorellina e ce lo dice da subito, ci descrive una sorellina più piccola che sentiva di possedere ma dalla quale non poteva essere posseduta per la sua età maggiore.

La scoperta del mondo procede, qui, per sensazioni fisiche e mentre Sartre era un bambino immaginario, Simone guardava, palpava e apprendeva il mondo con il proprio corpo; mangiare, scrivere, non era solo un’esplorazione ma anche un dovere poiché la madre le diceva che serviva per diventare grande. Questo le dava la chiara percezione del futuro, un futuro che “l’avrebbe cambiata in un’altra che avrebbe detto io e non sarebbe più stata me. Ho presentito tutti i divezzamenti, i rinnegamenti, gli abbandoni e la successione delle mie morti”.

Da donna-bambina si piaceva e cercava di piacere agli altri, aspettando la parola che la compiacesse, per strapparla al suo limbo e farla esistere nel mondo vero. Si procede, nel testo, per sensazioni e la stessa Simone scrive che ogni volta che le accadeva qualcosa sentiva di essere qualcuno; si dice una bambina allegra ma affetta da una suscettibilità malata che i genitori, a suo parere, avrebbero facilmente domato se avessero preso sul serio i suoi furori. E poi, la caduta dalla grazia, la scoperta del non assoluto del bene: “il bianco – scrive – ben raramente era perfettamente bianco[…]; non mi riusciva di veder altro che chiaroscuri”.

Un libro che va letto con diversi gradi di consapevolezza ed una stessa persona può rileggerlo a distanza di anni e scoprire nuove chiavi di lettura; un testo in continua evoluzione, come se a scriverlo e riempirlo di valore fosse il lettore stesso. Ed in questo sta la grandezza e lo spessore umano dell’autrice.

“Avere figli, che a loro volta avrebbero avuto figli, significava rileggere all’infinito lo stesso noioso ritornello; il dotto, l’artista, lo scrittore, il pensatore, creavano un altro mondo dove tutto aveva la sua ragion d’essere. Era in quel mondo che volevo passare i miei giorni” ed è qui che si forma la consapevolezza della scrittura che, a differenza di Sartre, non fu decisa fin dall’infanzia – contrassegnata, in lei, da un non prendere sul serio i propri scarabocchi. Tuttavia, ammette, quando a quindici anni si trovò a rispondere alla domanda “Che cosa volete fare da grande?”, lei rispose senza ammiccamenti “Essere una scrittrice celebre”.

Simone ritrovava se stessa quasi donna nel mal du siècle denunciato dalla sua generazione; si compiaceva dell’esser donna poiché l’inferiorità del suo sesso, ammessa dalle sue stesse consorelle, conferiva alle sue vittorie uno spicco maggiore. Il confronto col disfacimento del passato, la morte dell’amica Zazà e il vacillare delle certezze d’infanzia rendono chiara l’onestà intellettuale con cui Simone de Beauvoir guarda alla propria vita, seppur romanzandola appena.

Insieme – scrive ricordando l’amica morta – avevamo lottato contro il destino melmoso che ci aspettava al varco, e per molto tempo ho pensato di aver pagato la mia libertà con la sua morte.


(29/06/2007)