CORTI E STRANI. IN PLATEA AL MILANO FILM FESTIVAL
E’ terminato ieri il Milano Film Festival, organizzato dall’associazione Esterni. Nel bouquet ormai vastissimo delle iniziative proposte resta, sempre meno visibile eppure centrale, il concorso di cortometraggi provenienti da tutto il mondo.
di Stefano Zoja
Dire Milano Film Festival è dire niente. “Questo non è un festival” recita orgoglioso lo slogan di Esterni. Il concorso di cortometraggi come nucleo originario dell’evento è ormai quasi nascosto nel calderone delle iniziative proposte lungo dieci giorni. Milano Film Festival è corti, lunghi, documentari e cartoni animati. E’ incontri, politica, musica, dibattiti, libri, vino, magliette, workshop, affari persino. Si fonda su un’estetica mordi e fuggi, davvero milanese. Ma con tanto da dire, con una sostanza che affiora spesso tra le iniziative più diverse.

Anche dire cortometraggio è dire niente. Il cortometraggio è un prodotto audiovisivo che dura da pochissimi secondi a trenta minuti (oltre si parla di mediometraggio). Dunque non vuol dire necessariamente brevità. Né significa per forza sperimentazione, o scarsità di mezzi tecnici o improvvisazione. Non c’è alcun linguaggio o contenuto precodificato. Il bello del cortometraggio – ancora di più se parliamo di tanti corti all’interno di un festival – è l’imprevedibilità. Lo spettatore che entra in sala, nel caso del Milano Film Festival, conosce dei cinque corti previsti da ogni gruppo solo il titolo, la durata e la nazionalità.

Cominciamo dall’uscita. Salgo le scale cercando una monetina per votare, secondo il rito del festival, il corto che ho preferito fra i cinque del gruppo appena proiettato. In prossimità dei salvadanai, ciascuno legato a uno dei cortometraggi appena trasmessi, da un punto della folla che sta fluendo si leva un’invettiva: “Dovreste vergognarvi! Quest’anno sono scadenti come non mai! Se questi sono i cortometraggi selezionati fareste meglio a chiudere il festival! Vergogna, è una vergogna!”. Sorride gentile una delle ragazze di Esterni, incerta fra imbarazzo e divertimento di fronte alle grida di un uomo in camicia azzurra che urla il suo scandalo per la qualità delle opere. E’ il primo sabato del festival, primo passaggio del gruppo B. Facilmente quel signore non sarà tornato più.

E dire che ero uscito dalla sala piuttosto pimpante e soddisfatto, incerto anzi fra due corti a cui dare il mio voto. A me il gruppo B non era affatto dispiaciuto. “Le lac, la plage” (“Il lago, la spiaggia”), un lavoro francese in pellicola di sedici minuti, mi aveva coinvolto con la storia torbida di quattro ragazzi in gita: il galletto, la ragazza sensuale, l’intellettuale imbranato e l’intellettuale timida. Bella fotografia, bel ritmo. E poi c’era quell’altro corto turco, “Yildonumu” (“Anniversario”), intelligente e realistico e col suo bravo colpo di scena finale. Avrei voluto scambiarci due chiacchiere col signore dalla camicia azzurra.

Gruppo E, altro esempio. Il primo dei lavori in ordine di presentazione è il belga “Medelijden” (“Compassione”), un corto che sembra a sfondo sociale, ma finisce con l’occupare i suoi diciotto minuti soprattutto con una suspense densa e continuamente rilanciata. E’ la storia di una ricca donna borghese che di nascosto segue, colma di compassione, un barbone fino alla sua spoglia abitazione, per poi trovarsi accidentalmente rinchiusa nel suo sgabuzzino. Dall’inizio alla fine non viene pronunciata quasi una parola, tutto è giocato sul linguaggio visivo: inquadrature e montaggio. Lo trovo un piccolo pezzo di bravura e tutta la sala alla fine applaude convinta. Qualche giorno dopo incontro un amico, che ha visto lo stesso corto durante un’altra proiezione: diverse persone in sala hanno riso! Presumibilmente hanno trovato la storia della donna troppo surreale e inverosimile.

L’imprevedibilità, allora, è anche quella delle reazioni del pubblico. Il cortometraggio probabilmente divide il pubblico più ancora del film tradizionale. Il corto è un’intuizione, spesso un’idea semplice raccontata in maniera sintetica. Altrettanto istintiva e immediata è la reazione dello spettatore, che aderisce o rifiuta il corto in modo rapido e spesso radicale. Anche in questo si può vedere il segno dei tempi: il cortometraggio può essere uno dei figli ideali della vita culturale degli anni duemila: pochi compromessi, poca pazienza, gusto per l’effetto. Un discorso che però ora ci porterebbe troppo lontano.

Torniamo all’imprevedibilità: quella della reazione degli spettatori, ma anche quella dei contenuti, si diceva. Il gruppo C ospita quindici minuti di un brasiliano che racconta con flemma e insistita poesia la carne rugosa e la quotidianità sospesa di due centenari; un cartoon sulla fine della convivenza fra un coccodrillo, un ippopotamo, un’antilope e un rinoceronte; le immagini di una tempesta di due ore condensata in due minuti; una storia su come una fotografia possa racchiudere le svolte delle vite di alcune persone; e per finire otto minuti di crasso ma efficace umorismo americano, nei quali un tizio accompagna al pronto soccorso un amico che ha una lampadina incastrata nel sedere. Non ci facciamo mancare nulla.

Corti di generi assolutamente antitetici, in rapida sequenza uno dietro l’altro. A volte ironici, a volte poetici; alcuni sono dei gioiellini, altri meno, altri catastrofici. Pochi minuti per raccontare qualcosa: vanno benissimo in una città che non ha tempo. E qualche volta capita che ti resti una traccia. Ma non puoi immaginare cosa ti aspetta: entri in sala e, come non succede quasi mai, non sai nulla di ciò che vedrai. Un po’ come accade per alcuni degli strambi e variegati eventi collaterali di questo festival. Dev’essere anche per questo che Milano ne ha bisogno.


(25/09/2006)