India… Pochi paesi evocano così tanto solo nominandoli. Se dici India pensi ai santoni, alla spiritualità, alla povertà, alle caste, a Gandhi, alle bombe nucleari, all’induismo, ai meravigliosi templi, alle valli e ai fiumi, al Dio delle piccole cose di Arundathy Roy, alle contraddizioni, allo sviluppo impetuoso, agli ingegneri, ai ristoranti piccanti, al cinema di Bollywood. E si potrebbe continuare all’infinito. Dire India, quindi, significa tante, troppe cose, finendo forse col significare nulla.
Stringiamo allora il punto di vista. Proviamo a dire Bombay (o Mumbai, come si chiama oggi la megalopoli). Se dici Bombay… Beh, qui hai già meno punti di riferimento, almeno finché non ci sei stato. Forse conosci la Gate of India, monumento coloniale costruito sul mare. Sicuramente immagini tanto caos, tanta povertà, tanta gente.
Eppure, di Bombay ancora non hai immaginato niente. E allora devi andarci a Bombay. Ma non in vacanza. Devi andarci a vivere per 3, 5, 7, 10, 100 giorni. Devi prendere i loro treni, i loro taxi. Devi camminare nelle loro vie. Osservare le persone. Parlare con loro. Sentirne gli odori, ascoltarne i rumori, gustarne i sapori.
Allora forse comincerai a capire che non si può definire Bombay. Che è una città grande come una regione. Che per attraversarla ci vogliono letteralmente ore. E che qui, il bene più prezioso è lo spazio. Uno spazio assente. Uno spazio agognato. La gente è veramente tanta. Trabocca da tutte le parti. E trasmette l’impressione che prima ancora che i soldi o il lavoro, qui manchino proprio le case. A Bombay la gente vive ovunque. Nelle baracche, lungo le fogne, sui marciapiedi, persino in mezzo alle rotatorie.
Quando cominci a comprendere l’enormità e la vastità di questa “città” ti rendi conto che è impossibile e forse inutile cercare di vedere Bombay, di capirla, di conoscerla. Ti rendi conto che l’unica possibilità è viverne “dal di dentro” un pezzetto, una via, una piazza, un “piccolo” quartiere di periferia, cercando di farne un indicatore di ciò che accade in una delle città più grandi e caotiche del mondo.
Animati da questa scelta abbiamo intrapreso il nostro viaggio. Siamo quindi stati ospitati, grazie ad alcuni amici italiani che si occupano di “volontariato”, all’interno di una piccola “missione” cristiana, la Good Samaritan Mission…
Mamma mia… già il nome scatena una serie infinita di associazioni… Fermi! Non seguitele! Aspettate un attimo e vi racconteremo quanto abbiamo vissuto, cercando di superare in velocità la corsa delle associazioni mentali.
Abbiamo detto una missione cristiana. E, in effetti, al suo interno troviamo delle immagini di Gesù, sentiamo recitare delle preghiere, vediamo dei “tipi” con delle tuniche che sembrano religiose…
Eppure… Eppure, la realtà si rivelerà molto diversa da quanto ci saremmo aspettati.
Peter Paul Raj gestisce questa missione da oltre dieci anni e lo fa con forza, volontà, determinazione e un pizzico di incoscienza. Sembra un uomo di fede. E in effetti lo è. Tuttavia, all’interno della sua missione, troviamo ragazze musulmane e induiste che lavorano fianco a fianco. Parliamo con una delle orfane “storiche”, ospite nella missione da oltre 10 anni, e apprendiamo che è induista. Parliamo con un altro ragazzo e scopriamo che fu lo stesso Peter Paul a guidarlo verso la comprensione della sua fede non cristiana. E ci rendiamo conto che ci troviamo di fronte ad un caso più unico che raro.
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Una missione cristiana, benedetta e appoggiata da sacerdoti cattolici quali Padre Antony Grugni e Padre Carlo Torriani, nel cuore di un paese da “evangelizzare”, il cui fine ultimo non è la conversione dei fedeli, bensì prendersi cura di chi più ha bisogno. Senza nulla chiedere in cambio.
Questa lunga premessa era per noi essenziale. Solo partendo da questo punto di vista, infatti, si può apprezzare la peculiarità e la forza di una missione gestita da indiani per indiani e solo parzialmente finanziata dall’Italia e dall’Occidente. Una missione in cui vivono oltre sessanta bambini, maschi e femmine, che dormono in case-famiglia separate, ma trascorrono le giornate insieme.
Bambini e bambine orfani o figli di famiglie poverissime, a cui viene dato un tetto, del cibo, una comunità con cui crescere e confrontarsi, ma soprattutto una istruzione completa, che parte dalle scuole primarie accompagnando (almeno negli intenti) i soggetti fino alla maturità e insegnando loro – in molti casi – delle vere e proprie professioni.
Fino ad oggi i fatti hanno dato ragione a Peter Paul.
La missione è in continua crescita. Nei pochi giorni in cui abbiamo soggiornato a Mumbai abbiamo assistito all’apertura della scuola di informatica. Una fortuna insperata, per bambini nati e cresciuti in una stazione di treni, circondati da miseria, prostituzione, droga.
La missione, quindi, non si limita a sostentare bambini poveri, ma cerca di aiutarli a costruirsi un futuro diverso, dignitoso. Un futuro in cui i bambini di oggi siano i professionisti di domani. Persone in grado di vivere dignitosamente e di creare benessere e cultura nei loro figli e nelle persone che li circonderanno.
Nel frattempo… Nel frattempo i bambini sono tutti bellissimi. È banale, è retorico, forse è inutile sottolinearne la dolcezza, il sorriso, l’entusiasmo. Eppure va fatto.
Peter Paul è una specie di padre putativo di tutti gli ospiti della missione. Grazie ai finanziamenti dell’Aleimar e alla buona volontà di un gruppo di italiani, Peter Paul, dal ‘94 a oggi, è riuscito a costruire due dormitori, una sala di informatica, un ospedale per malati gravi di tutte le età, nonché un edificio a quattro piani in via di ultimazione destinato ad accogliere nuovi orfani.
Questi bambini - con il sorriso da infanti e lo sguardo da adulti - sono cresciuti per la strada e, malgrado tutto, sono incredibilmente ordinati nel loro trasbordante caos. Alternano momenti di svago vero e proprio a momenti di studio, di gioco organizzato, di ballo, di recitazione e di canto. Quando passano dallo svago allo studio, la trasformazione è istantanea. Improvvisamente, decine di bambini si fanno seri, ordinati, e si dedicano alle attività più disparate.
Sempre che in quel momento non arrivi il furgoncino di Peter Paul. In quel caso, ogni parvenza di ordine salta, sostituita dall’assalto gioioso di decine di braccia e gambe che si gettano sul “padre” il quale, con la sua immancabile flemma e il suo tono di voce invariabile, li saluta, passa tra loro e si dirige verso il prossimo compito della sua giornata.
La Good Samaritan Mission, però, non è solo un luogo per la crescita dei bambini disagiati. Oltre agli studi di informatica e di inglese e alla normale istruzione, essa “spinge” e indirizza infatti i suoi “ospiti”, e non solo, verso l’apprendimento di vere e proprie professioni. Da alcuni anni, per esempio, si tengono dei corsi di formazione professionali di sartoria (taglio e cucito), rivolti alle giovani donne delle baraccopoli. Questi corsi, oltre ad essere utili professionalmente, sono anche importanti luoghi di incontro e confronto tra donne che spesso faticano a costruirsi un loro tessuto di relazioni sociali indipendenti. Attualmente, peraltro, sono frequentati da circa una trentina di donne.
Alcuni degli ospiti o delle ospiti di lunga data della missione, poi, hanno compiuto il grande salto e oggi si prendono cura dei bambini o dei bisognosi, assistendo Peter Paul con i ruoli più disparati. C’è chi si occupa dell’istruzione, chi della pulizia e della cucina, chi dell’assistenza ai malati che viene effettuata nell’ospedale della missione, ma anche nelle baraccopoli e negli slum che circondano la zona.
Intorno a Peter Paul tutto trasuda dignità. I dormitori, che visti da occhio occidentale potrebbero sembrare “spogli”, qui sembrano accoglienti e sono comunque miracolosamente puliti. Le bambine indossano vestiti sgargianti, bellissimi. Probabilmente ne possiedono non più di uno a testa, eppure sono sempre pulite, sempre luminose, così come le ragazze più grandi.
Tutto è armonia, tutto è sorrisi. Nonostante le tragedie quotidiane. Nonostante ogni tanto qualche bambino non torni alla missione dopo essere stato con qualche parente. Nonostante il dolore e la morte alloggino a pochi metri, nell’ospedale per i morenti. Nonostante un vicino, una mattina all’alba, decida di colpire con una vanga Peter Paul alla testa. Senza un motivo apparente. Probabilmente per invidia o forse per pura follia. Paura, dolore, sconcerto. Ma poi la flemma, la gioia, la fede tornano a governare questo posto.
Induisti, cristiani, musulmani, laici, tutti insieme in una comunità che sa di utopico, in una Bombay disperata, in un’India affamata. Un nucleo sano in un corpo malato. Una specie di tumore al contrario che tenta di seminare cellule sane impazzite che finiscano con “infettare” positivamente l’intera società.
Potremmo continuare per pagine e pagine, ma non avrebbe poi molto senso. Certo, non vi abbiamo raccontato di Bombay-Mumbai. Non vi abbiamo parlato dell’India, delle sue bellezze, delle sue ferite. Vi abbiamo parlato della Good Samaritan Mission, di Vikhroli, quartiere di estrema periferia di una città grande come una regione. A noi sembra giusto così. E se non ci credete andate a visitarlo e poi fateci sapere cosa ne pensate.
Per sostenere l’attività di Peter Paul Raj rivolgiti all’Aleimar (www.aleimar.it), adotta un bambino a distanza o sostieni i diversi progetti della struttura.
Per contattare direttamente Peter Paul:
Peter Paul Raj. 189/2859 Tagore Nagar, Gr. N° 8-B, Vikhroli (E), Mumbai 400083.
good1234@bom7.vsnl.net.in
Tel 0091 22 25746118
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