Binh è un giovane vietnamita che vive in un villaggio, lontano dalla città. Le sue origini hanno radici nella lontana guerra del Vietnam, quando molti soldati statunitensi al termine della guerra presero moglie in quel travagliato sud-est asiatico generando figli e poi abbandonandoli. Binh, una volta divenuto adulto, prima viene senza mezzi termini allontanato dalla gente che fino ad allora si è presa cura di lui, proprio perché mezzosangue, poi una volta rintracciata la madre si trova a subire un destino beffardo che lo porterà ad intraprendere un viaggio in parte avventuroso e in parte drammatico, fin negli Stati Uniti alla ricerca del padre.
La storia è una classica parabola epico-romantica piena di personaggi, di storie di piccoli e grandi drammi, con un protagonista che più che attore principale è spettatore passivo di una serie di peripezie che lo vedono scontrarsi col Destino antagonista, il solo vero ostacolo alla realizzazione dei suoi sogni. Dunque in parte ci troviamo dalle parti del classico romanzo di formazione – dal piccolo villaggio sperduto in uno dei posti più poveri del mondo, alla magniloquente e prosperosa America fino ad un altro posto lontano da Dio e dagli uomini – dall’altro il film vuole toccare in alcuni momenti alti temi filosofici – come nascono i sentimenti di amore e odio, quando tra singoli uomini e tra culture, e soprattutto come si impara ad accettare la resa ideologica di fronte ad un vero sentimento d’affetto - .
Infatti, Binh è un carattere passivo perché ha la forza d’animo di attendere il confronto diretto col padre prima di giudicare lui e la sua cultura come male nefasto dell’umanità come invece fanno i suoi connazionali che ancora vedono nell’America lo spauracchio di sempre. Binh aspetta e questa sarà la sua unica arma contro il destino avverso; le vicende si susseguono vertiginosamente ma lui non si perde d’animo.
Presentato in questi termini il film sembrerebbe un capolavoro del genere, come lo erano i grandi film epici di David Lean o per restare nel sud-est asiatico L’impero del sole di Steven Spielberg; invece le note positive sopra menzionate costituiscono quanto di meglio si può dedurre dalle sequenze adeguatamente riuscite; insomma quelle che fanno effettivamente balenare una positività di intenti e di scopi tanto contenutistici che ideologici.
Infatti, pur durando due ore piene, il film avrebbe necessitato una lunghezza maggiore in virtù di un soggetto densissimo di storie e microstorie, e di molti personaggi-funzione che non possono essere liquidati nel volgere di poche pose, quel tanto che basta per dare al protagonista il destro ad agire o reagire. Così facendo si finisce – come d’altro canto accade – con lo svelare il meccanismo di scrittura della sceneggiatura alla base di questo film, portando il tutto ad un livello troppo ingenuo e fumettistico, senza nulla togliere ai fumetti. Ma è pur vero che i temi e le sfumature che a tratti emergono indicano la volontà di andare oltre la mera narrazione di un’avventura, e quindi di andare al di là dei cliché ottimali per un romanzo adolescenziale o per un fumetto appunto.
Pertanto la fretta di procedere oltre rende il film sì intelligibile ma anche troppo elementare e quindi scontato, annientando completamente l’indagine psicologica e riducendo gli scarti narrativi che fanno progredire la vicenda ad episodi senza dare allo spettatore il tempo di sedimentare il trauma che il protagonista sta vivendo in quel frangente del film. Tant’è che la parte migliore è l’ultimo quarto d’ora in cui il ritmo finalmente rallenta e l’ambientazione resta sempre la stessa, si respira un’atmosfera e si indaga un confronto vero e sincero tra esseri umani.
C’è anche da dire che la repentinità di taluni passaggi è da imputare anche all’ambientazione presso cui prende origine la storia, ossia quella del sud-est asiatico: in tutte le loro manifestazioni artistiche c’è la tendenza alla sintesi e alla sveltezza nella delineazione dei tratti caratteriali anche dei personaggi principali.
Tra i produttori fa capolino il nome di Terrence Malick (I giorni del cielo, La sottile linea rossa, The New World) e sforzandoci di leggere tra le righe i temi fondamentali del film e la scelta stilistica dell’ultimo quarto d’ora si riesce a capire perché il grande regista lo abbia voluto produrre.
|
|