Lo scrittore tamburella le dita contro la tastiera del computer. Non è certo di quanto sia da scrivere. Cantami, o Diva recita l’incipit dell’Iliade ma siamo lontani da Omero, dalla società della colpa, dalle divinità rabbiose, dagli eroi e dalle sirene affamate. Fame, questo è il titolo del suo ultimo romanzo: uno scrittore in bilico sull’ultimo giorno della fine del mondo. Eccolo lì, nella sua incertezza tra la derisione degli altri, dei grandi imponenti scrittori, tra l’ammirazione di chi gli sta intorno.
Daniele Sforza, cognome altisonante, non cede alla tentazione del venirsi incontro a metà strada, tra critica e pubblico. Uno scrittore che scrive tenendo a mente la fortuna e ciò che gli altri si aspettano da lui, è destinato a fallire. Certo, bisognerebbe ricordare gli ultimi scritti di una certa corrente giovanile: quelli non sono dettati da altro se non dalla volontà di potenza. C’è chi resiste però, nel suo baluardo, alla tentazione del successo e si dedica all’arte di fare arte, con classe ed un po’ di buongusto.
Ma torniamo al titolo del suddetto romanzo, ancora da terminare: Fame. La fame di non-cibo, la definisce. Difficile da capire, difficile da spiegare per chi lo ha capito, difficile perché difficile è la vita nelle sue sfaccettature che cambiano colore di continuo. Ma cos’è l’arte se non le mille maschere della realtà, i suoni delle voci, gli sguardi nella folla, le paure e le ossessioni, gli incubi, i sogni, i gusti, le perversioni.
L’arte è la vita. Ed ognuno ha la sua arte, il suo mestiere, il suo spazio, la propria capacità di produrre forme nello spazio vuoto. Lo scrittore, lui impregna inchiostro nella carta cercando un senso all’unità eterogenea del tutto. Uno scrittore post moderno, poi, come può essere Sforza e come potrei essere io e tanti altri, si staccano dai punti di riferimento, non cercano appigli, si slacciano dalla storicità del tempo e gettano manciate di pensieri sulla linea curva dell’orizzonte lentamente divorato dal fuoco gelido del tramonto. Un post moderno scrive per immagini come fosse la pellicola muta di un film, scrive di sé, di altri, di mondi paralleli, di esistenze sottratte alla realtà, scrive anche quando non scrive e i suoi sentimenti sono parole sul foglio di carta, sul monitor del computer.
Perché la vera arte non ti lascia mai. Ti segue come un’ombra, ti togle i sogni di notte, ti fa sognare ad occhi aperti di giorno, riempie lo spazio tra le cellule, si impossessa del corpo, distorce la realtà, cambia le percezioni delle cose, delle persone. Ti annulla eppure è lei, l’arte, a dare un senso al tuo essere, quando si dice ‘una causa superiore’. Gli anacoluti della mente, le reticenze dell’anima, le infestazioni dello spirito, gli umori neri, le follie, i riflessi opachi delle emozioni, questa è arte che si concretizza e diventa parole nere su fondo bianco.
E la fame, quell’istinto cieco e inarrestabile, non è appetito. Piuttosto è fame del romanzo perfetto, quello ancora da scrivere, quello con le parole giuste per fare breccia nei cuori delle persone affinché una mattina, nella cassetta della posta, ci sia una lettera con su scritto: “Anche se non ti conosco, grazie per avermi donato queste sensazioni”. Il mondo, in quell’istante, potrebbe scoppiare in milioni di sottili schegge e irradiarsi nell’oblio dell’universo perché lo scopo dell’arte sarà raggiunto e la volontà di potenza sarà debellata, nella sua suprema affermazione. L’arte è l’equilibrio dei contrari, è la pace, la fame di vita e la sazietà, nonché la ricerca di un nuovo istinto da materializzare nell’ideale dell’opera.
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