La storia di Tommaso la conosciamo tutti. Tanto che talvolta crediamo persino di averlo conosciuto. Come fosse un nostro parente. 18 mesi, occhi azzurri, boccoli biondi. Un viso da bimbo. I suoi occhi sono gli occhi dei nostri figli, dei nostri nipoti, dei nostri fratelli. E forse è proprio per questo che tutta una nazione è rimasta con il fiato sospeso e tanta è stata la solidarietà manifestata nei confronti di una famiglia che, probabilmente, non ha più lacrime per piangere, tanto è lo strazio.
Ma la migliore risposta al dolore, talvolta, è il silenzio. La comprensione di tragedie simili dovrebbe essere muta. E invece di parole ne sono state sprecate anche troppe e della morte orribile e violenta di un bimbo se ne è fatta una fiction.
Per fiction o per davvero?
Non è certamente questa la sede per parlare di Tommaso, i ricordi li lasciamo a chi lo ha conosciuto e amato veramente. Il dolore non viene messo in discussione. Così come l’orrore per un delitto che non avrà mai una valida ragione di essere stato.
La vicenda mediatica, però, dovrebbe far riflettere gli animi. L’accanimento è stato tale da lasciare senza fiato anche il telespettatore più avvezzo a tali spettacoli (il caso Cogne, del resto, insegna). Genitori, vicini, nonni zii. Nessuno è stato risparmiato da questo gioco al massacro che voleva indagare anche dove non c’era più nulla da scoprire.
Una televisione ripiegata su se stessa, alla ricerca di una realtà che essa stessa aveva reso irreale. E come spesso accade in casi analoghi, trasmissioni su trasmissioni basate sul nulla. Fondate su un semplice sentimento di pietismo; semplice proprio perché facile da creare, da fingere, da provocare. Fingendo che sia dolore. Una tv del dolore che, questa volta, ha superato se stessa; che con il dolore (quello vero) non c’entra nulla.
Talk show, trasmissioni pomeridiane, approfondimenti: le reti pubbliche (soprattutto), ma anche quelle private, non si sono risparmiate. Portando i confini dell’etica televisiva sempre più lontano. Spingendosi oltre i limiti della decenza.
Soubrette, psicologi, emeriti signori e signorine nessuno, giornalisti, improvvisati specialisti del settore. Nessuno ha rinunciato a dire la sua, accaparrandosi quel che c’era da prendere da un caso che poi, umanamente, è una tragedia.
Giornalisti di alta, media e bassa levatura alla ricerca di uno scoop che non c’era. Scandalizzati da uno scandalo che essi stessi avevano creato, da menzogne televisive (quelle dell’assassino) che scandalizzano in quanto televisive, più che in quanto menzogne. L’etica la decide la televisione. Mentire in TV? Deprecabile. Più che uccidere un bambino di 18 mesi, forse.
Una televisione della vergogna. Un giornalismo capace di toccare i livelli più bassi della professione. Senza morale. Senza regole. Nonostante l’etica giornalistica una morale la prescriva. Pur non imponendo nulla, ne dando linee guida. Certo, a ciascuno la libertà di interpretare.
Un gioco al massacro, fatto di ricerche del niente, seguendo piste inesistenti e impronte cancellate. Un giornalismo di domande idiote, che con la comprensione della sofferenza non hanno nulla a che fare. Un vero e proprio caso mediatico dove chiunque poteva sentirsi in grado di dire la sua. Dove la differenza tra fiction e realtà si è man mano sbiadita, fin quasi a diventare trasparente.
Un vero e proprio sciacallaggio, al quale anche la famiglia, vittima di una violenza doppiamente inaudita, non ha voluto, o forse più propriamente non ha saputo, sottrarsi. Cadendo nel tranello della televisione. Dove tutto va urlato e ostentato, anche il dolore, anche il funerale di un figlio.
Non ci resta che attendere i dati auditel. Nel frattempo, signori, silenzio: le lacrime, quelle vere, non fanno rumore.
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