IMMAGINE E IDENTITA'
TRA LE CREPE DI UNO SPECCHIO

Siamo quello che siamo, o quello che abbiamo? Il mistero dell’identità, da sempre costituisce un buco nero nell’esistenza umana, e la parvenza fisica che ci attribuiamo spesso è la prima con cui dover fare i conti.
di Claudia Bruno
Vi siete mai “sorpresi a sorprendervi” in uno specchio? Sicuramente. Anche di fronte alla negazione dei più spavaldi, i fatti restano questi. Il rapporto tra l’immagine che noi abbiamo di noi, e che gli altri hanno di noi, resta uno dei più irrisolti e spigolosi della nostra esistenza. Così, sorprendersi a sorprendersi in uno specchio, capita. E capita tutti i giorni. E più di una volta al giorno.

Gli psicologi direbbero che esistono due modi diversi di guardarsi allo specchio. Uno è quello funzionale. Usiamo lo specchio come uno strumento per fare cose altrimenti impossibili: ci trucchiamo, togliamo le sopracciglia, applichiamo un po’ di crema su una bollicina, sistemiamo i vestiti, annodiamo la cravatta. Una maniera innocua di specchiarsi. Non si pensa a cosa si è. Si percepisce l’immagine come riflesso esterno alla coscienza di sé. In parole più specifiche, l’immagine nello specchio non è riconosciuta da noi come auto-referenziale. Certo, sappiamo che siamo noi, ma lo sappiamo attraverso percorsi mentali periferici che lasciano intatta la sfera dell’identità.

L’altro modo di guardarsi allo specchio, è più invasivo. “Questo sono io”, il riconoscimento che porterà Narciso alla morte. Cercare di trovare nell’immagine restituita dal riflesso, niente di meno che sé stessi. Sorprendersi a sorprendersi. Tentare ancora di cogliersi impreparati, come se a guardarci fosse un io talmente critico da essere un altro. È qui che comincia il dramma e la pazzia, direbbe il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila.

Già, dramma e pazzia. Perché cercare di colmare quell’infinito scarto che sentiamo forte tra la nostra personalità e l’immagine che il riflesso ci restituisce, non può far altro che trascinare il nostro rapporto con lo specchio in un vortice di morbosità senza uscita. La chirurgia estetica non avrebbe avuto tanto successo, senza assicurarsi prima l’esistenza ineliminabile di questo squilibrio umano alla base.

Per capire quanto il rapporto tra immagine e identità sia morboso basta entrare in un luogo pubblico dove siano presenti specchi. Una palestra, uno spogliatoio, un bagno. C’è sempre il momento in cui qualcuno dimentica il resto della gente intorno e credendo di essere solo comincia curiosamente a scrutarsi. Si giudica dalla testa ai piedi, da quello che si vede a quello che non si vede. Il turbamento dello sguardo lo dimostra.

Le donne sono ottime cavie in questo. Passerebbero secoli davanti ad una superficie riflettente. Mentre si vestono, mentre si svestono. Ora si slacciano la giacca per lasciar intravedere la scollatura, ora la riallacciano per coprire la pancia. Ora sorridono, ora ammiccano, ora fanno il broncio.


Ma se questo atteggiamento per anni è stato definito vanità, forse è arrivato il momento di capire cos’è veramente. Non ci si osserva per ammirarsi. Si tratta piuttosto di un controllo continuo e pedissequo. Come volessimo pianificare, insieme alle nostre giornate, anche il modo di porci agli altri. Che se per gli altri siamo il nostro naso, le nostre labbra, il fondoschiena e la camminata, allora è bene saperlo, chi siamo. E ci controlliamo invano e senza soddisfazione, convinti di essere per gli altri esattamente l’immagine riflessa dallo specchio e niente di più o di meno.

Ecco che un semplice gioco di luce accende un conflitto irrisolto tra quello che sappiamo di essere dall’interno, e quello che vediamo di essere fuori. Le nostre sembianze sociali, niente di più importante. Ma siamo davvero quella faccia che abbiamo, quel corpo?

Ah, finalmente! Eccolo là! Chi era? Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in attesa che qualcuno se lo prendesse. Le pirandelliane considerazioni riecheggiano ancora tra le crepe di uno specchio. Forse che, in uno specchio, non possiamo vederci vivere? Proprio così. Perché non appena ci riconosciamo nello specchio, e fingiamo di estraniarci da quell’immagine per massacrarla di giudizi così come farebbe un altro…ecco che crollano i fili. Il burattino torna di legno, paralizzato e irreale. Sembra di entrare nella morte piatta di Barthes, quella della fotografia. Mettersi in posa davanti allo specchio, come davanti a un obiettivo: perdere la naturalezza. Muore la verità. Inizia la recita.

Non è un caso che molti laboratori teatrali per attori, professionisti e non, prevedano come unico attrezzo lo specchio. Come si danza allo specchio, si recita allo specchio. Ma allo specchio, non si vive. E se all’inizio si può avere l’impressione che il vetro magico riproduca fedelmente la realtà, prima o poi finiremo per accorgerci che non è difficile arrivare a pericolose distorsioni. Alcune malattie come l’anoressia, indissolubilmente legate all’accettazione della propria immagine in relazione al sentimento vitale che si ha di sé, sono l’assurdo risultato di queste distorsioni.

Un gioco perverso, insomma. Dal quale è difficile tenersi alla larga, soprattutto nella società che stiamo vivendo. Dove l’immagine è tutto. E le centomila maschere sono presenze spettrali pronte a fiatarci sul collo, ad attaccarcisi in faccia dopo l’ennesimo intervento chirurgico.

Forse, la sana pazzia di vedersi nessuno non è l’unica via d’uscita. Sarebbe bene imparare a guardarci, sì, ma oltre lo specchio. Magari creando qualcosa di unico. Magari scoprendoci negli occhi della persona amata, lo specchio più vivo. Che la bellezza umana senza vita non esiste, e i nostri corpi sono corpi quando si cercano e si trovano nel flusso inafferrabile dell’esistenza.


(30/03/2006)