Sono appena tornata da un viaggio di un mese in Kenya, quello vero, l’opposto di quello che accoglie chi atterra sulla spiaggia di Malindi. Studio biologia a Roma e questo era il mio primo passo deciso verso la tesi. Siamo partiti in sette, chi per studiare i Ciclidi del Lago Vittoria e chi, come me, per gli anfibi. Il nostro studio consisteva nel determinare la distribuzione ed il ruolo trofico (volgarmente, cosa mangiano) degli anfibi del lago.
Per fare uno studio di questo genere si possono seguire, tra gli altri, due metodi: cattura, flushing e rilascio (il flushing è una tecnica per cui si fa rigettare l’animale due o tre volte, in modo da determinare il contenuto stomacale), oppure cattura e uccisione immediata, prima che cominci la digestione. L’uccisione sarebbe avvenuta passando l’animale prima in una soluzione anestetizzante e poi in alcool, in un processo teoricamente indolore. Pur preferendo il primo metodo, il team ha deciso per il secondo sia perché il riconoscimento sarebbe stato più semplice (essendo specie poco note era difficile identificarle correttamente sul campo), sia perché la maggior parte di noi (io appartengo alla minoranza) riteneva che il flushing sarebbe stata, per animali dalla pelle tanto delicata, una tecnica più stressante rispetto alla morte.
Provocare la morte faceva parte proprio di quel range di azioni che non avrei mai creduto di accettare. Perché l’ho fatto, pur sapendo a cosa andavo incontro, ancora non mi è chiaro. O forse non voglio ammettere che mi sono abbandonata all’idea del viaggio e all’opportunità di aggiungere questa al mio bagaglio di esperienze, tanto da soffocare i richiami disperati della mia coscienza.
E così sono partita. Retino alla mano, cappellino para-Sole e soluzione anestetizzante.
Era Francesca che le trovava tutte. Girava per bene il retino, scavava lungo i bordi della pozza e tirava sempre su qualcosa: uno Xenopus, una Ptychadaena, un Phrinobathracus. Io, niente. All’inizio non me ne importava, anzi all’apparenza avrei avuto la coscienza meno sporca. Ma il professore la elogiava e mi faceva coraggio lasciandomi capire che non mi riteneva adatta per quel lavoro. Mi dava fastidio essere posta su un secondo piano. Avrei trovato anche io qualcosa, assolutamente dovevo farlo.
Ed ecco una Ptychadaena, e poi due Phrinobathracus, poco più grandi di un’unghia del pollice e quindi difficili da vedere. Ero fiera di me. In poco tempo ero diventata abilissima e ne ero soddisfatta. Ma ero pur sempre me stessa e la soddisfazione della cattura era davvero breve. Giusto il tempo di mettere il retino sopra la rana, poi le avrei liberate tutte.
Delle volte io e Francesca, entrambe contrarie a questo metodo ma combattute fra la coscienza e la gloria, facevamo finta di mettere le rane nel barattolo e ce le lasciavamo scivolare via dalla mano.
Ma nella soluzione le cose andavano diversamente da come ci aspettavamo. Il barattolo era semi-trasparente, e da fuori si vedevano delle zampette che si schiacciavano contro le pareti. Gli Xenopus liberavano una sostanza tossica, per cui chiunque veniva messo nel barattolo assieme a loro moriva intossicato e non si addormentava come era stato previsto. Una delle rane che dovevamo catturare, del genere Emisus, la chiamavamo Pupazzetto: sembrava fatta di gomma e aveva un musetto tenerissimo, con la punta dura per scavare nel terreno. Se te la tenevi in mano, cercava di infilare la testa fra le dita per nascondersi. E come le altre, Pupazzetto andava nell’alcool.
Siamo andati avanti così per dodici giorni. Ogni sera io e Francesca confrontavamo sensazioni e riflessioni, scoprendo quanto quella esperienza giornaliera ci sembrava aliena, lontana da come ci conoscevamo prima del Grande Viaggio.
Le ultime notti siamo andati a cercare le raganelle. Sapevamo che le avremmo trovate vicino al papireto che dà sul lago. Di notte quei posti erano uno splendore, fra l’acqua piatta, l’enorme cielo
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africano, curvo come un grande cucchiaio, e il suono delle raganelle che si diffondeva dappertutto, simile a canne di metallo in cui passa il vento. E così, l’ultima ora dell’ultima sera, le canoe lungo la spiaggia hanno accolto il mio pianto. Un pianto di pentimento e di scuse con me stessa e la natura che amo. Pupazzetto nell’alcool. Come ho accettato questo compromesso? Perché sono partita sapendo quello che avrei fatto? Con che coraggio, nella fase precedente della mia vita, affermavo che mai avrei ucciso un qualsiasi essere vivente?
In quel momento, fra il rumore delle canne e la grandezza dell’orizzonte, ho giurato a me stessa che mai avrei ripetuto un’esperienza simile. E solo adesso, che ho vissuto questo scisma, posso dire di avere coscienza di quello che dico.
Non si è mai certi della propria identità. Esprimo ora nuove certezze, ma quanto posso arrischiarmi di estenderle al di là del raggio dell’esperienza? Quali compromessi costruisco ogni giorno per camuffare qualcosa che altrimenti non potrei accettare?
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