Il nuovo format studiato per i testa a testa politici, in vista del 9 aprile, sembra la novità televisiva più rilevante degli ultimi tempi e una delle innovazioni più significative per la comunicazione politica italiana.
Niente di troppo innovativo sotto i riflettori: i confronti politici regolati con pedanteria non sono una novità nemmeno in Italia, ma questa volta l’eco è particolarmente forte. Sarà perché le ferree regole devono contenere una campagna elettorale più debordante e scadente del solito. Fino a poche settimane fa il duello si svolgeva a colpi di “sei basso”, “sei grasso”; vinceva la barzelletta più divertente, l’attacco più spettacolare.
E allora ben venga la sfida tv. Importata in confezione sigillata dagli Stati Uniti, dove le sfide Bush – Kerry e una lunga tradizione di duelli tv ne hanno comprovato l’efficacia, o almeno l’inevitabilità. Cominciarono Kennedy e Nixon nel 1960. Vinse Kennedy, che surclassò il rivale nel primo dei quattro dibattiti e mantenne il vantaggio nei successivi.
Secondo gli analisti statunitensi i faccia a faccia non spostano tanti voti, non modificano i trend preesistenti, ma possono rafforzare o scalfire l’immagine di un candidato. Salvo poi i casi in cui qualcuno si produce in una papera di sopraffino autolesionismo, come quando Carter nel 1980 disse di essersi consultato con la figlia adolescente sulle armi nucleari. Reagan ringraziò e vinse.
Il format statunitense è arrivato da noi quasi immutato. Le gabbie retoriche in cui vengono costretti i due candidati gli impediscono di debordare, magari ne limitano l’espressione, ma stabiliscono condizioni di reale parità nel dibattito. La regia rispetta cadenze e piani visivi rigidamente preconfezionati, lo studio è costruito in assoluta simmetria ed è dominato da un noioso e neutrale bianco.
I turni di parola, calpestati in allegria durante i normali dibattiti, vengono regolati da un cronometro e dal conduttore del confronto che ne è l’estensione.
Teoricamente il massimo per consentire l’esposizione e la comprensione dei contenuti senza gli scenografici accavallamenti, le urla e le frecciate. Invece, questi dibattiti rischiano di trasformarsi nel trionfo della forma. La televisione è la finestra sulle masse: consente ai candidati di raggiungere quel pubblico annoiato o infastidito dalla politica, che è troppo spesso – e non solo da noi – il decisore vero della competizione elettorale. Per parlare a queste persone contano i ghingheri più delle argomentazioni.
I candidati e gli altri leader delle due coalizioni che scendono nell’arena lo sanno perfettamente. Le loro risposte alle domande dei giornalisti sono scritte dagli “spin doctors”, dai guru della comunicazione politica, esperti di slogan e fiocchetti. Nel dibattito non conta ciò che un politico dice, ma soprattutto che lo dica con un’espressione convinta. Conta lo sguardo sostenuto e che le mani si muovano in modo deciso, scandendo, più che i concetti, la fierezza del candidato.
Maurizio Costanzo, nel bene e nel male un esperto assoluto del settore, si è prodotto in alcuni consigli per Prodi e Berlusconi prima del dibattito di pochi giorni fa. Il professore avrebbe fatto bene a comprarsi degli occhiali nuovi, il cavaliere doveva stare attento alla messa in piega. Niente nucleare, alta velocità o precariato: contava il trucco.
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Il paradosso è che il cassaintegrato dello zuccherificio di Casei Gerola non dovrà sperare che Prodi sostenga la necessità di rilanciare la concertazione sociale, ma che il suo completo grigio topo buchi lo schermo.
Come nella più tradizionale delle puntate di “Porta a porta”, anche se in maniera più subdola e silente, la forma si mangia la sostanza. Questa in realtà è una delle leggi classiche di qualsiasi comunicazione: i modi contano spesso parecchio più dei contenuti, la relazione si sovrappone al significato. Vale con i nostri colleghi, con i conoscenti e gli amici. Ma ancora di più vale in televisione e nell’arena politica, di fronte a persone inghiottite dal divano che non riescono a interessarsi realmente a ciò che viene detto.
Proprio questo rischia di essere il punto fondamentale. La televisione dà in pasto al pubblico ciò che questo chiede. Per il semplice principio, ormai invalso in tutte le televisioni d’occidente, che la televisione non educa ma vende. Al prezzo più basso. Per questo “Leader a confronto” non è taumaturgico.
Perché il paziente non vuole – e comunque non può qui e ora – essere curato. La politica viene vissuta, non senza ragioni, come distante e deludente. L’impegno individuale è ai minimi. Ma quando manca il coinvolgimento, quando non c’è una motivazione individuale, gli aspetti formali restano i più semplici da valutare (emotivamente) e si fanno decisivi. Allora cronometri e inquadrature cesellate diventano un apparato all’inizio esotico e, magari, dopo un po’ anche noioso.
Nessun miracolo, insomma, dal format che doveva ricondurre alla ragione la campagna elettorale. Non tanto per i leader e nemmeno per il pubblico. Certo, sentire i politici parlare uno alla volta e con un tono di voce pacato è già uno spettacolo appagante. La rivincita di tanti insonni che dopo cinque minuti di “Porta a porta” hanno il mal di pancia.
E ha sicuramente una qualche utilità per la comprensione pubblica dei programmi e delle visioni. Ma da questo programma non deriverà nessuna rivoluzione. Intanto perché è improbabile che sposti un numero consistente di voti. Ma soprattutto perché cambia poco rispetto alla tradizionale comunicazione politica nostrana. Essere alti, grassi o capelloni continua a contare troppo.
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