Definito dalla critica il più bel diario del nostro secolo. Il diario di Bernando Soares, un solitario, un eremita confinato nella propria mente, se ne sta dietro la finestra della sua casa a guardare la vita che vive senza di lui. Come Flaubert. Una vita esterna e reale di cui lui però non si accorge, un luogo estraneo come estranea è la sua interiorità a lui stesso.
Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so cosa vi accada si legge nel Malte di Rilke. E, più o meno, lo stesso vale per Soares. Così grande è la portata della sua incompetenza per la vita comune che il suo monologo si trasforma in un dialogo mancato, con le persone della vita che si è lasciato sfuggire.
Un dialogo con un interlocutore possibile ma improbabile. Con Pessoa/Soares, Lisbona entra nello statuto delle città-simbolo come la Dublino di Joyce o la Praga di Kafka.
Ogni giorno- senza dar peso al giorno che effettivamente è- è uno snodarsi di pensieri, sensazioni, emozioni. Il tempo pesa. Ma non in quanto tempo. Piuttosto come perdita del passato che irrimediabilmente non sarà più.
Pessoa ce lo descrive il suo Soares: un uomo di circa trent’anni, magro, alto. Ricurvo su se stesso. L’aria sofferente. Ma leggendo, poi, non si pensa a quest’uomo come una persona triste. Piuttosto, malinconica. Uno che cerca di tenere uniti i filamenti delle stelle. Un esercizio esecrante nella sua impossibilità.
Soares pensa. Pensa. Pensa. E si perde in queste sue riflessioni. Forse, appena ispirate da una realtà velata. Esistenti solo nella sua mente. Il labirinto spigoloso della mente degli uomini. Così distaccato dal reale. Così immenso nella sua solitudine. E quando uno si tiene per sé ogni sensazione, finisce con l’ammalarsi.
“E’ questo l’errore centrale dell’immaginazione letteraria: essa suppone che gli altri sono noi e che devono sentire come noi. Ma, per fortuna dell’umanità, ogni uomo è soltanto chi è, e al genio è concesso soltanto di essere qualche persona in più”.
|
|