Ho iniziato a leggere il libro di Maggiani non perché avesse vinto il Premio Strega 2005, ma perché ne avevo sentito parlare durante una conversazione fatta in una casa a Sarajevo tra due persone, solo un breve accenno, prima al titolo seducente Il viaggiatore notturno, e poi qualche parola sull’episodio della città di Tuzla in Bosnia durante la guerra. Appena tornata in Italia lo compro, senza saper nulla di più, credendo di trovarvi una storia intorno alla guerra ell’ex-Juogoslavia.
Quando, però, mi immergo nella lettura, mi ritrovo improvvisamente avvolta nel silenzio su uno dei punti più alti del cuore del deserto del Sahara, dove un’irundologo, ovvero un esperto di migrazioni animali, osserva e attende il passaggio delle rondini. Da qui inizia la storia, una vera e propria migrazione attraverso pensieri e riflessioni che porteranno questo romantico scienziato lontano dal silenzio di quel luogo che secondo lui geologicamente parlando è il buco del culo del mondo o il centro dell’Universo. In questo luogo regna la quiete assoluta, è il posto in cui arrivano gli echi lontano delle parole dette dalle altre parti della Terra. Sembra che approdino qui, in questa parte di mondo ovattata e che qui, dove la trasparenza delle notti del deserto permette alle immagini di altri tempi di riemergere lucide, vengano sepolte sotto la sabbia, che rende tutto uguale.
Tra una descrizione del popolo dei tagil, nella cui esistenza il protagonista si immedesima, e l’ascolto dei racconti del poeta itinerante Tighrizt, riemergono vite rumorose, vite di guerra, tante altre storie, da cui dal deserto si è presa distanza, e per questo si manifestano allo stesso tempo goffe e drammatiche.
Dunque il deserto appare come una condizione esistenziale, una saggezza acquisita dove la dolcezza dei ricordi di infanzia convive con il sogno infranto e con l’errare instancabile e disperato di un’orsa, Amapola, che inquieta attraversa l’enorme foresta della Carnia, sorpresa dai rumori della guerra vicina. Una volta giunto in questa terra lontano da tutto, ma dove tutto converge - il deserto dell’Hoggar - l’uomo conosce la forza del vento, così forte che dove passa non lascia nessuna traccia evidente di ciò che è stato, ma fa ancora respirare la sottile presenza di antiche esistenze. Viene subito da pensare allo stato d’essere dell’uomo perfetto, l’uomo antico, il saggio, che non ha grinze sul suo stomaco che possano trattenere rancori, rabbia, odio, dolore, ma è liscio e immenso allo stesso tempo e così può godere di tutto e osservare tutto con il medesimo distacco e la medesima partecipazione. Un premio meritato.
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