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IL VINO PROIBITO DI TIBERIO...
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Grazie ai romani il vino che oggi troviamo sulle nostre tavole è un prodotto raffinato, un vero e proprio oggetto di "desiderio"...e Tiberio lo preferiva "puro"...
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di Francesco Lemmi
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Se furono i greci prima e gli etruschi poi a introdurre la coltivazione della vite nella nostra penisola, furono poi i romani a diffondere queste tecniche in tutta l’area europea meridionale e nell’Africa mediterranea.
La fonte più antica che ci parla di questa particolare attività agricola è Catone il Censore, vissuto alla fine del III secolo a.C. e nella prima metà di quello successivo, il quale nel De Agri Cultura sostiene che nell’acquisto di un appezzamento di terreno a scopo agricolo fosse importante dedicare particolare attenzione alle coltivazioni della vite per il vino, dell’ulivo per l’olio e dei salici per i vimini utili per la realizzazione di quelli da utilizzare nei filari.
Il principale porto italiano per il commercio del vino fu quello laziale di Ostia, nei cui isolati si assistette alla nascita dei primi thermopolia, vere e proprie taverne nelle quali il vino era venduto e consumato. In età imperiale la viticoltura si affermò come una delle principali attività agricole romane, molte volte a scapito delle coltivazioni di cereali (tanto che nel 92 l’imperatore Domiziano dovette vietare l’impianto di nuovi vigneti e, anzi, molti di quelli esistenti furono fatti estirpare), e la produzione vinicola raggiunse livelli molto elevati.
Furono numerosi i trattati dedicati anche alla viticoltura, come il De agricoltura di Marco Porcio Catone, le Georgiche di Publio Virgilio Marone, e specialmente la Naturalis historia di Plinio il Vecchio e il De re rustica di Lucio Moderato Columella.
Quest’ultimo si occupò anche di dividere i diversi vitigni presenti sul territorio imperiale, cinquantotto dei quali una dozzina adatti al vino da tavola, mentre Plinio calcolò la presenza di circa duecento tipi diversi di vini, dei quali la metà erano considerati di alto livello.
Oltre agli scrittori per così dire “tecnici” furono numerosi anche i poeti che dedicarono alcuni loro carmi al vino, alla sua coltivazione e alla sua degustazione.
La vendemmia si svolgeva con l’utilizzo di falcetti che staccavano i grappoli dai tralci e quindi in un secondo momento l’uva era caricata sui carri per essere portata dove avveniva la degustazione degli acini, per dividere le uve destinate alla produzione di vini importanti da quelle destinate al consumo quotidiano.
Quindi si passava a un locale apposito chiamato calcatorium, nel quale le uve erano pigiate a ritmo della musica all’interno di particolari vasche in pietra.
Le diverse fasi di pigiatura producevano dapprima un mosto chiamato lixivium e che era servito come aperitivo con l’aggiunta di miele, mentre le vinacce erano utilizzate per produrre il vino di qualità più bassa e chiamato circumsitum.
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Il mosto più pregiato era lasciato fermentare per circa un mese e poi travasato in recipienti via via più piccoli. I vini destinati a un invecchiamento più lungo erano lasciati in locali appositi chiamati aphoteca e posti al primo piano degli edifici, proprio al di sopra delle cucine in modo che il calore rendessero questo processo più veloce.
Quindi i vini passavano in un locale più fresco, chiamato tabulatum e poi travasati in particolari anfore che erano poi affondate nella sabbia in modo da mantenere la posizione verticale; questi vasi avevano generalmente una capacità di trenta litri, erano sigillati per mezzo di tappi di sughero e saldati con la pece ed erano etichettati con l’annata e con il nome del produttore.
Spesso il vino era appositamente “alterato” per migliorarne il sapore: erano utilizzati, per esempio, la polvere di marmo che tendeva ad addolcirlo, l’albume d’uovo oppure il latte di capra per renderne il colore più chiaro oppure la resina e la mirra per permetterne un invecchiamento più lungo.
Giunto a tavola, il vino era versato all’interno di un cratere, mescolato con l’aggiunta di acqua e infine versato nei bicchieri per mezzo di un mestolo chiamato simpulum.
Esistevano diversi tipi di bicchieri, tra i quali i più comuni erano il kantharos, di origine etrusca e realizzato in bucchero, e il cyatus, caratterizzato da una particolare forma ricurva che si appoggiava al tavolo mediante un piede con due estremità.
Le principali qualità di vino erano il falerno, il massico, entrambi campani, il cacubo laziale, il mamertino siciliano, il retico veneto; dall’estero giungevano vini dalla valle del Rodano e dalla Borgogna in Gallia e dalla regione di Tarragona, in Spagna.
I banchetti più importanti erano accompagnati dalla presenza di una magister simposii, un intenditore enologico che si occupava di versare vini di diversa composizione e gradazione a seconda dei pasti ai quali si accompagnava e all’andamento della serata.
Come i greci, anche i romani consideravano estremamente sconveniente bere vino puro (chiamato merum), in quanto l’effetto era spesso controproducente: a tal proposito le fonti segnalano che l’imperatore Tiberio era solito non aggiungere acqua al proprio vino e che per questo motivo “godeva” di una pessima reputazione presso la sua corte.
Il consumo di vino puro iniziò solamente in età tardo imperiale, quando mutarono anche le tecniche di produzione e si riuscì a diminuirne la gradazione alcolica senza l’utilizzo di altri liquidi.
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(25/01/2006)
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