Appena si arriva alla Sala Umberto a Roma, a due passi da Piazza San Silvestro, si riceve un depliant dello spettacolo in scena. Quello dei prossimi giorni, fino al 20 novembre, è il racconto del testo che vedremo tra poco rappresentato, più il curriculum degli attori sul palco. Quello di Placido è lunghissimo, non lascia spazio a perplessità, a commenti.
C’è tutto: ci sono anni, registi, momenti di storia della televisione e del cinema. Una vita intera, insomma. E lui, quando arriva sul palco, se la porta addosso proprio bene la propria vita. E’ un giovane che invecchia bene, con stile non comune, con una gestione del corpo che gli consente lunghe tirate di battute senza prendere né perdere mai fiato, con minuti interi di recitazione accasciato come fosse seduto, e invece ha sotto il vuoto.
Placido è un virtuoso dell’interpretazione, legge a memoria e ciò è sorprendente. Non come tutti gli attori migliori di cui non stupisce la capacità di incamerare tra i ricordi per sempre interi copioni. Ma perché lui li scorre sulla fronte, e se fosse appena più trasparente potremmo leggerli insieme anche noi.
Forse non bisognerebbe neppure sottolinearlo, ma la natura sanguigna e l’origine meridionale dell’attore vengono incontro e si prestano bene all’autore. C’è nella voce di Placido la nostalgia delle terre arse da ore di sole a picco, l’amore del mare salato sulle coste, il ricordo di ogni profumo, di ogni fiore, di ogni notte del Sud.
Bella anche l’idea di fondere il presente e il passato attraverso proiezioni di immagini: vedere Pirandello ritirare il Nobel e Marta Abba da lui diretta, e le foto e la casa da cui è fuggito per poi rimpiangerla…vedere la Sicilia di cui parlava scorrere davanti agli occhi come un film non è modernismo né sperimentazione. E’ capire cosa si può fare per avvicinarsi al linguaggio del pubblico e dunque alle sue emozioni.
I due testi di Pirandello scelti per la rappresentazione sono “La carriola” e “L’uomo dal fiore in bocca”, tra i titoli più noti del grande autore. Li avevamo seppelliti nelle memorie liceali, li avevamo dati per conquistati, una volta per sempre. E invece, merito proprio della ‘sceneggiatura’ dello spettacolo, li ritroviamo tremendi, non attuali ma di più: contemporanei.
Sono lì, con la propria verità letteraria che è anche verità di vita sofferta e amata, a raccontarci quel che siamo, la nostra esistenza di uomini moderni, il nostro essere ciò che gli altri hanno voluto e deciso per noi, quel che si aspettano. E quell’improvviso non riconoscersi più, sognare altre vite, non ben definite ma più simili all’anima nostra che urla per uscire da un corpo che neppure gli corrisponde. Uomini moderni, appunto, guidati dalla ragione, dalla continua riflessione su se stessi, da una capacità indagativa di segno psicologico, sconosciuta al mondo antico.
Dopo Freud il teatro – e neppure il mondo - è stato più lo stesso. L’uomo ha scoperto un infinito territorio in cui poter viaggiare, un mare da navigare: se stesso, come chiave di lettura dellle cose.
Placido restituisce al testo – dote rara anche in attori consumati - una magnifica semplicità, una naturalezza di esposizione che lo rende accessibile a chiunque. E in questo è davvero teatrale, nella generosità con cui nasconde al pubblico la propria millimetrica fatica.
"Io e Pirandello
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