IL DISASTRO DELL’AMAZZONIA. UNA FINE DEL MONDO
Mentre i governi dichiarano lo stato di calamità, l’esercito porta aiuti e le popolazioni soffrono la siccità peggiore degli ultimi quarant’anni, sparisce un pezzo di mondo. Ancora una volta la cieca colpa dell’uomo.
di Claudia Bruno
E se ci dicessero, un giorno, che il fiume più grande del mondo è scomparso? Niente. Non c’è. Sparito. Se ci dicessero che la foresta pluviale più enorme della terra è malata, molto malata, non sarebbe come ammettere che il mondo sta finendo?

Ora, le popolazioni della grande Amazzonia si trovano in grande disagio per la terribile siccità che ha colpito i loro territori. I governi hanno dichiarato lo stato di calamità, per ricevere aiuti più facilmente a livello burocratico. Ma la burocrazia non è tutto. Questi aiuti devono scontrarsi con cause più imponenti. Non bastano gli eserciti contro le ribellioni della natura. La più grave siccità degli ultimi quarant’anni. Così è stata definita.
Molti affluenti del Rio delle Amazzoni, fiume di ben 6.868 km di acqua dolce, sono letteralmente prosciugati, rendendo impercorribili le uniche vie di comunicazione per raggiungere le popolazioni indigene della foresta. Il polmone del mondo.

Il polmone è malato. Un terzo di tutta la superficie terrestre. La riserva di ossigeno più grande. Ma l’uomo è così. I polmoni che ha dentro preferisce bruciarli. Quelli fuori li calpesta. Allora perché siccità, perché morte, perché sempre più disagi?

Qualche anno fa, mentre interi gruppi di ricerca tentavano di mettere in guardia gli uomini dalle stesse loro azioni, il maggior produttore di soia al mondo, sorrideva al New York Times dicendo di non sentirsi minimamente colpevole riguardo la deforestazione messa in atto per ampliare la competitività economica del Mato Grosso. Quella deforestazione, non avrebbe significato nulla. Solo vantaggi economici. Del resto, si sa, siamo nell’era della scienza, ma le orecchie dei governi sono sempre sorde alle urla degli scienziati, a meno che non si tratti di affari.

Che c’entri qualcosa il fatto che negli ultimi trent’anni il 17% dell’Amazzonia sia stato completamente spazzato via dalle ambizioni di governi e multinazionali? Bah… Il governo brasiliano ci tiene a sottolineare gli sforzi per l’attivazione di piani ambientali, come la creazione di 77.000 chilometri quadri di aree protette e la delimitazione di 55 terre indigene.
Ma se aggiungiamo alla buona volontà le infrastrutture ‘ultramoderne’ che le politiche locali si battono per realizzare, se ricordiamo di aggiungere ai conti l’impatto ambientale dell’agro-business, degli allevamenti industriali, dei tagli illegali di legname da parte delle multinazionali del compensato a basso costo, forse i conti tornano. Forse quei 23.000 chilometri quadri di foresta scomparsi in media ogni anno negli ultimi tre anni, sono scomparsi davvero.

Per capire l’effettivo atteggiamento governativo a proposito, basti pensare che nel 2001 il governo brasiliano annunciava il lancio di un piano di sviluppo chiamato “Avanca Brasil”, attraverso il quale si impegnava a finanziare opere all’interno della foresta Amazzonica per circa 10.000 km di autostrade, centrali idroelettriche, dighe, elettrodotti, miniere, gasdotti, pozzi petroliferi, canali di navigazione e porti.

Inoltre l’80% della produzione di legname brasiliana è illegale. Questo significa che il governo tacitamente acconsente ai tagli delle multinazionali asiatiche, nordamericane, europee, che dopo aver spolpato fino all’osso le foreste dell’Africa Centrale e del Sud Est Asiatico, hanno pensato bene di fare una puntatina in Amazzonia. Una concentrazione di ben 60 miliardi di metri cubi di legname! Il tutto completato dalla svalutazione del Real brasiliano, dopo la crisi finanziaria asiatica, non ha fatto che rendere il legname (illegale) prodotto in Brasile, uno dei più competitivi al livello mondiale. Così l’apertura delle frontiere commerciali ha semplicemente esteso la responsabilità al globo intero. Oggi le nostre nazioni sono effettive o potenziali acquirenti di quel legname.

Ma non è finita. L’agrobusiness e l’allevamento di scala industriale sono altri due importanti fattori di deforestazione e degrado ambientale. Spesso le zone disboscate, vengono selvaggiamente coltivate senza scrupoli per l’impoverimento del terreno. Altre volte vengono incendiate. E’ su quella cenere che vengono piantate erbacce da dare in pasto ai futuri hamburger che troveremo nel panino quotidiano. In questo modo il terreno si impoverisce di sostanze nutritive, diventando incapace di accogliere nuova vegetazione, e privato delle radici degli alberi è impossibilitato nel trattenere l’umidità, completamente assorbita e dispersa tra le crepe di uno scenario sempre più arido e triste.

Oggi, Greenpeace ci assicura che le principali due cause dell’attuale siccità sono il riscaldamento globale e la deforestazione. Il Brasile è uno dei primi quattro paesi al mondo che influiscono sul riscaldamento globale. Vuol dire che incendi e deforestazione alimentano una produzione eccessiva di anidride carbonica, principale responsabile dell’effetto serra. Ecco come i fiumi spariscono. Ecco come muore una parte di mondo, con un tasso di biodiversità elevatissimo, ci saluta per sempre.

Cosa significa? Rinunciare alla bellezza di oltre 200 specie di alberi (72 specie diverse di formiche su un solo albero), a un’enorme popolazione di pesci d’acqua dolce. Rinunciare all’esistenza di sensazionali meraviglie: una foglia più grande di un uomo, una scimmia piccola quanto uno spazzolino da denti. Rinunciare alla sopravvivenza, alla tradizione, alla spiritualità di intere popolazioni indigene. Rinunciare all’ossigeno che ci rimane da respirare, l’ultima riserva di vita.



(31/10/2005)