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VISITANDO BUENOS AIRES IMPRESSIONI DA UN PAESE IN EQUILIBRIO PRECARIO
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L’Argentina è una delle nazioni più difficili e insieme ospitali del Sud America. Passeggiando per le strade della sua capitale sembra di riuscire a cogliere l’intensità che guida i pensieri e i movimenti di un popolo reduce da un secolo tormentato. Umori e prospettive di una delle più belle città del sud del mondo.
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di Stefano Zoja
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Buenos Aires, anche a primavera, ha l’aria vitale e dimessa della capitale contraddittoria. Avenida Florida è la strada dello shopping per eccellenza, in cui si concentra un’umanità varia, difficile da trovare altrove così concentrata. Artisti di strada e turisti, manager in giacca e accattoni, giovani trendy e lustrascarpe. In prevalenza sono facce familiari, di stampo europeo, ma non mancano volti indios, neri e stranieri di ogni genere.
Quando provi a chiedere un’informazione per strada può capitare che qualcuno guardi oltre e acceleri il passo, oppure (più spesso), che si fermi e si sbracci per mezzora assicurandosi che tu abbia capito. Librerie modernissime e centri commerciali luccicanti sono intervallati da negozietti di abiti a prezzi di svendita o piccole librerie di volumi usati. Tutto sembra incoerente e forse sono questi contrasti a rafforzare il fascino dell’atmosfera: il senso della lotta, del movimento. Le cose, le persone sembrano più belle perché sono difficili, perché non sai cosa aspettarti. Questa, però, è una strada centrale. Se si va verso la periferia, quella lotta sembra essere persa. Allora la fascinazione lascia il posto alla malinconia, o alle domande razionali. Sui come e i perché di un popolo e di una nazione così contraddittorie.
Nei primi decenni del Novecento l’Argentina era un paese ricco e avanzato e lo doveva all’invenzione dei frigoriferi. Ancora prima era stato premiato dalla sua morfologia: un territorio vasto, pianeggiante e umido (eccetto la zona a ridosso delle Ande e la Patagonia) dove coltivare e soprattutto dedicarsi all’allevamento. Ma alla fine dell’Ottocento l’Argentina traboccante di ottima carne può cominciare a esportarla lontano: il neonato frigorifero la conserva per la tavole europee.
L’Argentina si arricchisce e diviene una meta ambita per un’immigrazione europea di alto profilo economico e culturale, in particolare francese. In realtà la ricchezza è distribuita in modo fortemente diseguale e vaste fasce della popolazione sono povere. E lo resteranno quando, nei decenni centrali del Novecento, saranno le dittature militari (da quella di Peròn e sua moglie Eva, fino a quella del generale Galtieri) a controllare il paese. Sono comunque anni di forte immigrazione dai paesi europei più svantaggiati dalla Seconda Guerra Mondiale: spagnoli e italiani giungono in massa e la cultura del paese si europeizza ancor più. Sono gli stessi anni in cui il medico argentino Che Guevara combatte in altre zone delle Americhe. L’Argentina deve passare ancora attraverso il fenomeno dei desaparecidos, cittadini contrari al governo che improvvisamente “scompaiono”; e attraverso la guerra con l’Inghilterra per le isole Malvinas (1982), che segna il fallimento definitivo delle dittature militari. Poi nel 2001 il crac di uno stato e una popolazione che non riuscivano a reggere oltre il debito pubblico più consistente della storia, la parità del peso col dollaro e la disoccupazione.
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Il cittadino medio in Argentina ha una conoscenza delle tematiche macroeconomiche che in Europa non possiamo nemmeno immaginare. Perché è la loro vita, perché l’inflazione o le svalutazioni monetarie sono qualcosa che in breve tempo possono togliere loro – e già lo hanno fatto in passato – il cibo dalla tavola.
Ed ecco perché alcune persone tirano dritto se per strada chiedi un’informazione, o perché i citofoni delle case non possono essere comandati dall’appartamento, ma bisogna recarsi di persona al portone per fare entrare qualcuno: perché siamo in un paese che, in decenni (e secoli) di una storia dura, ha imparato a non fidarsi; e perché una sorta di trauma si è diffuso fra la gente dopo il crac degli ultimi anni. E per lo stesso motivo Buenos Aires è una città ricolma di mendicanti, di gente che distribuisce volantini. E di tassisti. C’è sempre molto da imparare di una città dai suoi tassisti. A Buenos Aires se dal momento in cui cerchi un taxi a quello in cui ci sali passa più di un minuto vuol dire che hai il malocchio. Ce n’è una quantità incredibile. E alla guida delle auto malandate si trovano ingegneri, esperti di cinema, ex manager. Persone decadute, spesso colte o interessanti, che si sono rifatte una vita.
Un tassista mi spiega il suo punto di vista. L’Argentina è un paese “maravilloso”, che ha un solo problema: gli argentini. Provo a dirgli che no, a me non sembra, che sono gente pensante e creativa, che forse gran parte dei problemi nascono per il livello di corruzione delle alte sfere politiche ed economiche. Mi ribatte che gli argentini sono indolenti, ma furbi, che la testa la usano per raggirare il prossimo. A Buenos Aires, dice, se gratti via l’asfalto e butti dei semi, e, senza fare altro, torni dopo una settimana, trovi una pianta. E’ che gli argentini vivono su un territorio bello e generoso ma non hanno voglia di coltivarlo e di coltivarsi, lavorando. Preferiscono vivacchiare di espedienti. Sono pigri, accettano passivamente quello che succede. Negli ultimi anni della dittatura militare, mi racconta, l’Argentina organizzò il mondiale di calcio. Era il 1978, il paese aveva ogni sorta di problemi, ma gli argentini furono ben lieti di abbandonarsi all’enfasi calcistico-nazionalista cui si dedicava il governo militare. Così come si entusiasmarono per l’epopea di Maradona, uomo talentuoso e sregolato, emblema dell’argentino irresponsabile. Il pallone come droga e un calciatore impigliato nella droga come idolo. Anche qui, il calcio oppio moderno dei popoli.
Eppure le strade di Buenos Aires sono animate, c’è un fervore particolare. La quantità di teatri e cinema impressiona e rende difficile scegliere. Le iniziative culturali, anche gratuite, sono innumerevoli, come le librerie, spesso aperte fino a mezzanotte. C’è un rispetto e un interesse per tutto ciò che è cultura che molti paesi non conoscono. Questa, per fare un nome, è la nazione di Borges.
E in un altro senso è impossibile non notare l’intraprendenza e la creatività che animano molti. I corsi di tango, un esempio dei più immediati, sono innumerevoli, di tutti i generi, per tutti i livelli. Si può passare una settimana frequentando ogni giorno un luogo diverso, con insegnanti e clienti diversi. Basta presentarsi davanti a una scuola o a un locale con pochi pesos in tasca. Un sistema poco strutturato e facilmente accessibile, che testimonia il bisogno e insieme l’elasticità del sistema stesso. Senza che venga meno la passione sincera dei maestri verso questo ballo sensuale. Non è solo commercio del tango, ma orgoglio e coinvolgimento: il turista, anche il più svagato, deve entrare in questo ballo, coglierne il senso oltre che la tecnica. Questa è anche la nazione di Carlos Gardel.
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Il tango viene ballato anche per le strade, in spettacoli semplici eppure preparati con cura. Si percorrono pochi metri e si incontrano comici travestiti che improvvisano scenette, poi statue viventi, cantanti e suonatori di ogni strumento, mangiafuoco e artigiani.
Artisti di strada semplicemente, ma tanti e tanto più vari che in molte altre metropoli del mondo. Forse sono anche questi gli espedienti di cui parlava il tassista. O forse, semplicemente, non gli venivano in mente questi personaggi quando raccontava degli argentini indolenti e furbi. Come probabilmente non verrebbero in mente a una persona cui un paese corrotto e malandato ha bloccato nel 2001 il deposito in banca di tutti i suoi averi – diecimila dollari –, restituendogliene solo mille alcuni anni dopo.
Questa sembra l’Argentina, vista da Buenos Aires in una permanenza troppo breve: un paese creativo e ansioso, sorridente e sfiduciato.
In questa nazione si trova la più alta concentrazione di psicologi e psicanalisti al mondo. Sembra un controsenso visto che sono in pochi a potersi permettere una spesa in questo “bene”. Ma in questo dato c’è la testimonianza di un popolo abituato a dubitare, a interrogarsi, ad avere a che fare, almeno per quanto riguarda i ceti meno disagiati, con il pensiero e la cultura. L’armonia, il buonumore e la vitalità si incontrano per strada, ma devono combattere con lo scoramento e i timori di una popolazione protagonista – non sempre involontaria – di una storia complessa e costellata di cadute.
Ma le risorse di carattere e di pensiero, oltre che del territorio, sono visibili. Riassunte per le strade della capitale o dentro le sue modeste compravendite di libri usati. Dove si trovano poche persone intente su una varietà di libri, che passa dagli ultimi bestseller a testi comunisti impolverati e vecchi di decenni, ai fumetti vivaci e contestatari della Mafalda di Quino.
Una piccola oasi, queste librerie, in cui ci si può ristorare dal caos delle “avenidas”, fermarsi un attimo per capire da dove viene l’Argentina, e forse anche dove va.
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(11/08/2006)
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