Se alla fine, nonostante il subisso di polemiche che l’ha preceduta, la prima puntata di RockPolitik è andata in onda, c’è da credere che il vento in Italia stia mutando davvero direzione. E non che i segnali di un cambio di rotta politico non fossero già, e da tempo, nell’aria: il fatto è che, assuefatti alla mediocre continuità (o continua mediocrità) di questa Italia, ogni piccolo segnale che lasci presagire un ritorno al desueto esercizio dell’intelligenza e della creatività assume per noi proporzioni epiche.
Il tiro di Celentano, si può ben dire, è andato a segno: con il 47% di share medio, RockPolitik rivendica, di fronte a quanti l’avevano osteggiato, il suo sacrosanto diritto a esistere, travalicando il confine dell’intrattenimento televisivo per assurgere a fenomeno culturale e sociale.
Il direttore di Rai Uno Fabrizio del Noce, che in un accesso di impotente isterismo aveva minacciato di auto-sospendersi (non si sa bene cosa significhi) per tutta la durata del programma, è tornato a rincarare la dose il giorno dopo, criticando duramente le parole dello showman e del suo più scomodo ospite. “Tutti hanno paura delle parole”, aveva commentato il molleggiato mostrando la classifica di “Freedom of the Press” sulla libertà d’espressione che pone l’Italia al settantasettesimo posto, fra Bulgaria e Mongolia. Tuttavia, più di tutte le parole che Michele Santoro avrebbe potuto pronunciare giovedì sera, crediamo bastasse, a creare agitazione nell’establishment, la sola presenza fisica in scena del conduttore di “Sciuscià”: tanto lampante e sotto gli occhi di tutti è la cosa, che gli sarebbe bastato fare una passeggiata sul palco - appena una rapida comparsata - per destare scandalo.
Lo scandalo, insomma, è quello della sua lunga assenza dal video, della sua repentina, improvvisa scomparsa all’indomani dell’ormai famigerata dichiarazione che il Presidente del Consiglio rilasciò in Bulgaria il 18 aprile del 2002 a proposito dell’uso “criminoso” della tv di Stato. Da tutto ciò traspare in filigrana lo straordinario, mostruoso potere della televisione: tutti sapevamo per quale ragione Santoro fosse sparito dagli schermi - e con lui Biagi, Luttazzi, Grillo - ma soltanto nel momento in cui il giornalista è ricomparso fisicamente davanti alle telecamere, soltanto allora la cosa ha cominciato a esistere.
La televisione continua, dunque, a esercitare il suo mostruoso potere, più saldo e incrollabile di quello che la politica s’illude di detenere, più efficace e sconcertante di ogni altra forma di comunicazione. E con il colpo di mano di giovedì scorso Adriano Celentano non ha soltanto messo in scena uno dei suoi migliori spettacoli, con le canzoni, gli inimitabili monologhi, gli ospiti e la bella Luisa Ranieri, ma soprattutto, e forse involontariamente, proprio la cosa che non vedevamo benché fosse tanto evidente, la cosa che per esistere aveva bisogno di questo ineludibile battesimo mediatico. Non sono mancati, nel corso della trasmissione, momenti intensi e significativi: il discorso sugli scempi dell’Italia, benché vi spirassero i refoli della via Gluck, aveva qualcosa di grandioso: la denuncia della scomparsa dei luoghi di aggregazione e socialità, poi, era di straordinaria verità e acutezza.
L’immagine del Tempio della Concordia ritagliato sullo sfondo dei moderni palazzacci di Agrigento, messo lì a campeggiare alle spalle del cantante, era anche quello, con la sua muta evidenza, un impietoso j’accuse rivolto non tanto alla politica e al malgoverno, ma a questa cosa tanto evidente quanto invisibile – l’invisibilità dell’evidenza, come nella “Lettera rubata” di Poe – questo impoverimento delle nostre vite, questo letargo della fantasia e della gioia di vivere che sentiamo, tangibile, nell’aria:
i barbari non arrivano più, come nella conclusione della poesia di Costantino Kavafis recitata in diretta da Gérard Dépardieu.
Insomma, a un’epoca rock – secondo la distinzione fatta da Celentano nel primo monologo – segue un’epoca lenta, e a questo passaggio, da rock a lento, è da ascrivere forse la nostra segreta infelicità, la ragione per cui l’ingenuo idealismo del “re degli ignoranti”, oggi inspiegabilmente conquista il nostro cuore.
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