NEL CUORE DELL’ISLAM
AHMED RASHID

Rashid ci porta per mano lungo ed oltre i confini della civiltà centroasiatica, nel cuore della cultura islamica, raccontandoci storie prima mai sentite, aprendoci un occhio sulle radici della minaccia globale e non solo.

di Claudia Bruno
Il titolo scelto per l’edizione italiana vale più di molte parole. Nel cuore dell’Islam è un viaggio attraverso un pezzo di mondo che nessuno ci ha mai raccontato. L’Asia centrale, antico fulcro dell’umanità, ponte tra Asia ed Europa.

Scenario delle civiltà più battagliere, conquistatori e santi, terreno calpestato nei secoli dalle carovane mercantili, culla di etnie e culture nei centri nevralgici di Bukhara, Samarcanda e Osh, patria della più attuale militanza islamica.

Rashid è pakistano, e fa bene il suo mestiere. Ci porta per mano lungo ed oltre i confini tracciati crudelmente da uno Stalin ‘sbadato’ nel 1929, dopo la repressione dei basmachi, quando la vasta regione del Turkestan creata dai bolscevichi si ritrovò assurdamente frammentata in cinque repubbliche prendenti il nome dalle relative etnie. Ma il criterio etnico non era stato rispettato, e questo avrebbe comportato ben più amare conseguenze.

Protagonista di quello che sembra a tratti un romanzo giallo, il concetto di jihad. Così il prima e il dopo il ‘blocco comunista’ si confondono nella valle di Fergana. Gli antichi maestri ‘sufi’ del passato tornano sotto forma di mullah itineranti durante la repressione sovietica alle religioni. Gli eredi dei basmachi antisovietici degli anni ’20 combattono dopo il crollo dell’Unione, contro i regimi dei loro paesi, dove i diritti civili sono ampiamente calpestati dalla logica del partito unico e dalla reticenza ad adottare riforme economiche e sociali.

Mentre Usa, Russia e Cina si impegnano nel nuovo ‘grande gioco’ di interessi, assediando da ogni parte questo pezzo di terra seduta su litri di petrolio, Rashid racconta il dramma delle sue genti, tagliate fuori da montagne e steppe, da una storia che non conosce democrazia.
Sono storie di pastori da un giorno all’altro costretti a munirsi di passaporto per arrivare al di là del villaggio, bambini che spinti dalla voglia di sopravvivere scavano nelle riserve dei roditori per mangiare un po’ di grano, donne che segretamente organizzano madrasa in casa e continuano a curare i santuari nell’illegalità imposta. Gente sempre più povera per la corruzione del potere cui deve render conto. Spesso e volentieri maltrattata, violentata e uccisa nell’ignoranza, per aver accettato una moneta dai nuovi militanti, in cambio di vitto e alloggio.


Partiti come il Pri di Nuri (Partito della Rinascita Islamica), l’Ht (Hizb ut-Tahrir), il Miu di Namangani (Movimento Islamico dell’Uzbekistan) diventano allora i nuovi protagonisti senza volto della nostra era, costretti ad operare nell’illegalità perché messi al bando dai governi locali in quanto opposizioni all’unico partito, con tutto il seguito che questo può trovare tra popolazioni profondamente esauste delle proprie condizioni di vita.

Tutto ci scorre di lato, come dal finestrino di una jeep usata. La sofferenza della guerra civile tagica, i conflitti etnici, i ricatti energetici, le pazzie di Karimov (capo dell’Uzbekistan), gli attentati di Dusahnbe, la resistenza talebana in Afghanistan, le elezioni truccate, i progetti globali del saudita Bin Laden, i traffici illeciti di armi e droga sul confine tagico-afghano, i mali endemici che la comunità internazionale non ha voluto vedere fino a quell’11 settembre, capaci di distruggere il tessuto sociale di stati piccoli e indissolubilmente legati gli uni agli altri.

Ma è l’ immagine reiterata di uno Juma Namangani, carismatico capo del Miu, che scende dalle montagne dopo ogni campagna militante contro i regimi del 2000, puntualmente accompagnato in esilio da elicotteri russi, con tanto di trecento pastori e donne al seguito della sua barba, a farci pensare quanto lontana sia quella realtà dalla nostra. In un attimo, il fascino del romanzo popolare lascia in bocca l’amaro di connivenze irrisolte tra militanti e regimi, regimi e grandi potenze. L’amaro di una minaccia globale, che nasce tra le montagne, nelle steppe, e non si sa dove va a finire.


(29/09/2005)