Solo chi ascolta le canzoni di Vasco Rossi può capire e giustificare lo spettacolo della prima serata dell'HJF.
Cercare di arrivare sotto il palco a metà pomeriggio era un'idea lontana dalla realtà; bisognava avere il coraggio di attraversare un fiume di corpi steso a terra tra resti di cibo, bottiglie di plastica, tende, stracci, coperte e -naturalmente- scoli di birra. Sembrava impossibile che quegli stessi corpi a distanza di qualche ora si sarebbero di nuovo alzati in piedi, coi visi svegli e gli accendini aperti.
Dalla collinetta Rivazza su cui il sole era rimasto alto fino all'arrivo di Vasco non si riusciva nemmeno a calcolare bene in quanti fossero a riempire lo spiazzo. Si vedeva solo che arrivava altra gente, che non smettevano di entrare persone. E' durato fino alle dieci, persino a concerto iniziato. Qualcuno -così è stato detto- era rimasto bloccato in coda sulle autostrade e allora si è aspettata una mezz'ora per dar modo a tutti di godersi il biglietto pagato. Fischi all'annuncio, ma poi nessuno ci ha più fatto caso. L'attesa non era un momento noioso, non era una visita medica o un colloquio coi professori quello che separava i fan dal proprio idolo. Era l'attesa di un maestro, tutt'altra cosa.
Un pensiero, infatti, è arrivato subito, dopo le prime tre canzoni: ed era che avessero sbagliato a promuoverlo Dottore in Scienze della Comunicazione. Gli sarebbe stato meglio il titolo di filosofo, perché è questo che arriva da ogni testo, da ogni rigo, da ogni verso delle sue canzoni.
Qualcuno si lamentava del fatto che Vasco non parli un granché ai suoi concerti, che si limiti a chiedere 'come va, state bene? e allora meglio... perché tutto è bene quel che finisce bene'. Insomma, qualcuno s'aspettava una cosa più intima, una riflessione, poche parole delle sue, di quelle che restano giuste per sempre. Invece niente. Ma quelle parole, Vasco, le ha già dette tutte. Sono già pronte, le conoscono a memoria anche se magari non le hanno ancora capite bene i centoventimila ragazzi che illuminavano come un cielo notturno l'autodromo di Imola.
Vasco comincia con 'Gran bel film' e finisce con 'Albachiara', canta 25 canzoni. In mezzo ci mette un ricordo per l'amico Massimo Riva e il coro di applausi lascia gli occhi un po' lucidi. La scaletta, comunque, è una scaletta davvero 'politica': Portatemi Dio, C'è chi dice no, Stupendo... insomma c'è di che riflettere. Vasco lo dice così, a modo suo, di essere onesti e sinceri, di non arrampicarsi sui cadaveri dei propri amici, di non tradire chi non se l'aspetta, di non nascondere il desiderio di potere dietro falsità religiose. Sul palco sembra un po' invecchiato, ha la barba lunga e sotto la visiera del berretto più di un capello grigio. Ci piace ancora di più, adesso che le sue canzoni gli diventano sul microfono una specie di monito, di memorandum.
Vasco corrisponde così bene alla propria musica che quando intona 'io che credevo alle favole, che non capivo le logiche ...se sono vivo è già un miracolo', tutti noi sappiamo che è vero e non solo per lui. E' vero per tutti, almeno per chi ha coltivato così tanti sogni nella vita che troppo spesso qualcuno ha pensato di portarglieli via senza nemmeno voltarsi: quelli che hanno il famoso 'pelo sullo stomaco'...
Tutta la sera è stata un'emozione di luci a migliaia, di fiamme piccole e chiare, dove poco prima del tramonto c'erano solo rifiuti e brutture. Ecco, la magia di un artista sta pure nel riuscire a trasformare qualcosa di antiestetico o addirittura di antietico -come il vergognoso lancio di bottiglie alle Vibrazioni che precedevano Vasco- in qualcosa di nuovo, in una notte da ricordare, in una immagine da riportare a casa mentre si viaggia all'indietro sul sedile di un treno. Vasco resta intatto, in quegli occhi azzurro chiaro, innocenti e vissuti, veri e carichi di errori come può farne chi crede che la vita non sia proprio tutta una finzione.
Per chi seguirà il resto del tour solo un consiglio: nello zaino mettete anche un Autan, perché pure alle zanzare piace la musica...
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