DON’T COME KNOCKING – NON BUSSARE ALLA MIA PORTA
REGIA: Wim Wenders CON: Sam Shepard, Jessica Lange, Tim Roth, Gabriel Mann, Sarah Polley GERMANIA/FRANCIA 2005 DURATA: 122 minuti GENERE: commedia, drammatico

Daniela Mazzoli: due ore liete

Sta per iniziare la proiezione dell’ultimo film di Wim Wenders nella sala del Nuovo Sacher, a Roma, mentre all’ingresso si accalcano già gli spettatori delle 22.30. Al botteghino i biglietti sono esauriti e qualcuno è rimasto fuori.

Nanni annuncia il prossimo arrivo del regista e ricorda con una serie di calcolati ‘mi pare’ i titoli dei suoi film più famosi. Quando Wenders prende la parola scorre tra le file rosse delle poltrone una certa emozione, l’ansia di una frase storica da riportare a casa in ricordo. La frase storica invece non viene pronunciata, Wim promette solo che passeremo due ore piacevoli: “you’ll have a nice time”.
E conclude dicendo che questo è il film che avrebbe sempre voluto girare: una storia western ma anche una storia d’amore, un film sulla famiglia, una commedia mischiata alla tragedia. Insomma ci ha messo tutto e ce l’ha messa tutta.

Alla prima inquadratura si capisce benissimo che di western lui se ne intende: c’è tutto il linguaggio del genere, l’ampiezza degli spazi che è insieme dilatazione del tempo, tipica dell’epica del West.

Due buchi nella roccia gialla delle montagne sono appena l’emblema dell’occhio cinematografico, dello sguardo che osserva la storia, del punto di vista privilegiato da cui stiamo per spiare il dramma. Un uomo solo al centro del nulla, in mezzo a un deserto in cui disperare la salvezza o il conforto di una presenza umana: ma stavolta non è un vero cowboy. Si tratta di un attore che abbandona il set, un uomo a cavallo con speroni e cappello sul viso che ha smarrito il senso della propria vita e prova a rintracciarlo nell’unico modo che conosce: la fuga.

Il film è davvero un intreccio senza pause di motivi e di avvenimenti, in un tempo lunghissimo e assai lento in cui ha occasione di esprimersi bene la faccia ruvida e virile del protagonista. Un uomo come molti, un attore come tanti che sull’onda del successo si è sottratto alla vita reale e ha trovato scampo nella droga e in relazioni sessuali. “Ma perché hai aspettato che passassero trent’anni?” gli chiede la figlia appena ritrovata. “Perché non me ne sono accorto, mentre passavano”, risponde lui asciutto con la voce di uno che sa cosa vuole dire ‘aver perso’.

Un amore di gioventù e un altro figlio: pure questo ritrova il famoso attore, e una madre che non perde la pazienza e non offre lezioni di vita, ma solo consigli e biscotti caldi.

Forse qualcuno vedendo questo film penserà che ogni concetto espresso era in fondo un’idea già nota, che non aggiunge nulla ai capolavori di Leone e allora tanto vale vedere una pellicola di Tarantino che confonde davvero i generi, creando un prodotto provocatorio e originale. E magari –se pensasse questo- avrebbe anche ragione. Ma cosa si può chiedere di più a un regista che di mantenere le promesse appena formulate?

Wenders aveva detto che avremmo passato due ore liete. E così è stato, le abbiamo passate. Il resto è questione di gusto. E sui gusti, si sa, non è lecito disputare.


Lorenzo Corvino: il peggior film di Wenders

Probabilmente il peggior film di Wenders. Se Crimini invisibili aveva almeno un senso di inquietudine, per certi versi anticipava l’epoca dei grandi fratelli televisivi ed aveva comunque quel grande tratto inconfondibile della cifra stilistica di Wenders: l’atmosfera al limite del surreale. Così pure dicasi per il grottesco Million Dollar Hotel, fumettistico e accattivante, persino, questo sì, esilarante in talune sequenze.



Quest’ultimo invece vuole definirsi commedia per bocca del suo stesso autore. A detta di Wenders egli ha voluto fare il film che sempre avrebbe voluto: ovvero una commedia, una tragedia, un road movie, un film con Sam shepard, un film con Jessica Lange, un western, un family drama, tutti questi insieme. Peccato perché Wenders sembrava aver imbroccato nuovamente la via del cinema sofisticato e fantasticante con La terra dell’abbondanza, per quanto fosse un suo titolo minore, pur sempre emotivamente giustificato; ma quest’ultimo è un film del tutto pretestuoso senza anima.

Rivela troppo quell’intenzione sopra citata: fare un film che sempre si è desiderato fare mescolando le carte e, ahinoi, facendo trasudare costruzione e forzature da tutte le parti. Un personale divertimento che non ha nulla a che vedere con l’intrattenimento o con la riflessione. Non si perdona a Wenders una scena come quella del figlio naturale di Shepard che preso da un raptus di rabbia getta dalla finestra tutte le cose della sua stanza: perché se esse non sono, peraltro, neppure legate al ricordo del padre, che di certo non gliele ha mai regalate? Allora perché ricorrere ad un’esternazione di rabbia così scontata, già vista, e così troppo assecondata e presa sul serio dallo sguardo del regista? Veramente odioso questo figlio che dovrebbe invece far commuovere.

Meglio la figlia naturale che vaga con l’urna delle ceneri della madre, una sempre misteriosa e intrigante Sarah Polley, attrice ventiseienne canadese, già ammirata ne Il dolce domani, Il mistero dell’acqua e La mia vita senza me. Non a caso a lei è affidato il momento più prettamente tragico e toccante del film. Ma la verità è che il film manca di un vero dramma e di un vero oggetto del desiderio da dover conquistare o di una deadline che fa fremere lo spettatore. Tant’è che la riappacificazione tra padre e figlio arriva tanto in fretta quanto in maniera del tutto inspiegabile, irrisoria.

La comicità di cui si fregia Wenders è del tutto gratuita ed ha il respiro del nonsenso piuttosto che delle gag divertenti. Manca poi il movente fondamentale che spinge il protagonista a mollare tutto improvvisamente. E’ troppo facile partire già con il nostro eroe in fuga, il quale si è dato solo per sé la sua personale spiegazione senza comunicarla a terzi, che poi saremmo noi spettatori.

Si obietterà che questo è solo un incipit come tanti altri per un film che non vuole vedere nella trama il suo punto di forza, come dopotutto mai è stato nella filmografia di Wenders. Si è dimostrato spesso un regista intento a sfruttare dei nuclei narrativi come trampolini per uno sguardo sempre nuovo ed efficace su talune realtà e metafisiche manifestazioni della spiritualità umana che solo la sua cinepresa così personale e meditabonda riesce a catturare (pensiamo, senza andare troppo indietro al Wenders storicizzato, a Lisbon Story del 1995)

Ma questa volta alla trama esile e per nulla accattivante, neppure nel nucleo, non si affianca una rappresentazione visiva dello spazio western contemporaneo degli Usa sterminati. Una rilettura né demistificante né interrogante. Pare anzi che abbia preso i quadri di Hopper e li abbia riprodotti in set senza fare alcuno sforzo creativo. Troppi tempi morti che sembrano prefigurare un avanzamento della storia o del carattere dei personaggi che invece non arriva mai.

Quindi per la prima volta abbiamo un Wenders che letteralmente gira a vuoto con la sua macchina da presa: pensiamo al momento in cui Sam Shepard si siede sin dal mattino sul divano scaraventato fuori dalla finestra dirittamente in mezzo alla strada dal suo figlio naturale irato con lui per l’abbandono, e vi resta sino al mattino successivo; ebbene per questo momento Wenders sceglie di ricorrere a tanti carrelli semicircolari a segnare il passaggio di tempo, veramente troppi e sempre uguali, senza fantasia, come un puro esercizio di stile, che farebbero gola al giovane regista esordiente, e di cui in un film di Wenders non se ne vede proprio la necessità.


(03/10/2005)