LOLA CHE DILATI LA CAMICIA
dall'autobiografia di Adalgisa Conti a cura di Luciano Della Mea drammaturgia di Marco Baliani, Cristina Crippa e Alessandra Ghiglione regia di Marco Baliani scene e costumi di Carlo Sala con Cristina Crippa e Patricia Savastano produzione Teatridithalia
di Damiano Cristilli
E' felice il ritorno sulle scene di questo spettacolo che tanto ha emozionato fin dal suo esordio nel '96.
Ispirato alla corrispondenza di Adalgisa Conti, internata in manicomio a 26 anni nel 1914 e rimasta fino alla sua morte, con il medico che l'aveva in cura.
Questa storia aveva appassionato Cristina Crippa che aveva proposto a Marco Baliani e ad Alessandra Ghiglione di adattarla per il teatro.

Non ci sono cambiamenti evidenti nella messa in scena a distanza di 9 anni; ancora si precipita all'interno della scena attraverso corridoi ricoperti di tessuto e sia arriva dove Adalgisa e la sua infermiera-carceriera aspettano.
Lenzuola suddivise in strisce, cucite e ricucite secondo un'abitudine in uso negli istituti psichiatrici di contenzione.

Lenzuola come sudario, corredo nuziale, bavaglio, coperta.
Sudicie, immacolate, macchiate.

"Gentilissimo dottore, questa è la mia vita", sono queste le parole che introducono il percorso di questa donna che diventa potente proprio per la sua indicibiltà, per la sua colpa che diventa perimetro entro cui si muove che è gabbia e mondo.

Proprio allo spazio tocca sottolineare la potente analogia con un altro testo che racconta di un viaggio all'interno di un inferno psichiatrico, "Dentro il muro" di Janet Frame (1990).

In un luogo di "cura" dove "mille donne dipendono da un uomo e mezzo" viene rinchiusa apparentemente con diagnosi di schizofrenia la scrittrice,"per il suo bene" spogliata da se stessa e da ogni aspirazione, trovando nella scrittura l'unico mezzo per emergere da un incubo durato 9 anni.

Ed è proprio "dentro il muro" che spesso Adalgisa si trova, è la scenografia stessa che nasconde passaggi, squarci da cui, grazie alle trasparenze del tessuto che avvolge completamente la scena, vediamo, ascoltiamo i suoi lamenti e i suoi ricordi.

Una dimensione femminile temuta, a cui gli psichiatri (anche chiamati alienisti) del '900 riconoscevano una parziale irresponsabilità giuridica, vedendo le donne in preda agli umori del proprio utero.

Ed è dentro se stessa - nelle sue pulsioni - che Adalgisa ci porta. Nel suo ingenuo e per questo scandaloso e prepotentemente attuale bisogno di essere riconosciuta come essere umano sensuale, passionale.

Dentro questa dimensione femminile privata e nascosta le due protagoniste recitano le lettere alternandosi in un controcanto che tanto deve ai lamenti delle tragedie greche.

Queste "prefiche" che piangono di se stesse, queste sacerdotesse di un rito bislacco, incomprensibile, il cui ritmo è dettato dai percorsi mentali della protagonista, dove ci porta?

Perché epico è il tono, un’odissea non è niente altro che viaggio dove il protagonista si perde e si ritrova dopo anni, stremato e perso.

E' in quello spazio sacro di tempo-non tempo che la vita percuote più forte, le forme evocate sulla scena ci fan presto dimenticare la dimensione reale, facendoci palpitare con la storia stessa.

Metafora e luogo, cosa può significare stare "dentro il muro" della propria mente che improvvisamente è vista come colpevole e nemica?

A "Lola che dilati la camicia" il pregio di aver saputo rispondere con disarmante umanità a queste domande.


(26/05/2005)