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SETTE STORIE GOTICHE
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KAREN BLIXEN
Se Shaharazad, l’indimenticabile narratrice delle Mille e una notte, ha avuto una voce nel novecento, questa è stata sicuramente quella della aristocratica scrittrice danese delle Sette storie gotiche.
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di Ginaluca Traini
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“Il Conte Augusto von Schimmelmann, un giovane danese d’indole piuttosto malinconica, la cui prestanza era sciupata da una certa tendenza alla pinguedine, stava scrivendo una lettera su un tavolo fatto con una pietra da mulino, nel giardino di un’osteria nei pressi di Pisa, in una bella sera di maggio dell’anno 1823. Poiché non riusciva a finirla, si alzò e andò a fare quattro passi per la strada maestra, mentre la buona gente della locanda gli preparava la cena. Il sole vicino al tramonto dardeggiava raggi d’oro tra gli alti pioppi a fianco della strada. L’aria era tiepida e pura e piena d’una dolce fragranza d’erbe e di piante, e innumeri rondini saettavano alte e basse, quasi non volessero perdere nemmeno un minuto di quell’ultima mezz’ora di luce.”
Non so voi, ma io ho letto raramente un primo capoverso di un racconto così apparentemente semplice ed efficace. In queste poche righe c’è tutto: la presentazione di quello che probabilmente sarà il protagonista della storia; il luogo e il tempo in cui si trova a vivere questo probabile protagonista principale; l’accenno a un impedimento, il non riuscire a finire una lettera che si sta scrivendo, che crea in chi legge il classico desiderio di saperne di più: perché il Conte non riesce a finire questa lettera?, a chi sta scrivendo?; e, infine, lievi ed accurati tocchi paesaggistici che sembrano volerci condurre su quella stessa strada maestra lungo la quale il Conte ha cominciato a fare quattro passi per cercare di alleggerirsi di un po’ di quella presumibile tensione che lo sta rendendo inquieto.
Autrice di questo memorabile incipit e degli altri racconti che compongono questo autentico classico del novecento intitolato “Sette storie gotiche”, edito da Adelphi con la traduzione di Alessandra Scalero, rivista poi da Adriana Motti, è la scrittrice danese Karen Blixen, che con questo libro esordì nel mondo della letteratura nel 1934, a quasi cinquant’anni.
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Ciò che rende straordinaria la scrittura della Blixen, e che salta subito agli occhi leggendo uno qualsiasi dei suoi racconti, è la fluidità narrativa con cui vengono sviluppate le vicende proposte al lettore, una fluidità che ha qualcosa di unico nel panorama letterario del primo Novecento.
In un periodo in cui anche i migliori ingegni si affannavano per essere originalmente moderni, per sentirsi al passo con i tempi nuovi, la Blixen trovò per i suoi racconti uno stile talmente antico da risultare del tutto diverso da quello dei suoi coetanei: era lo stile delle antiche narratrici di favole, era lo stile eterno di chi nell’intimità dell’alcova poteva confidare solo nel potere affabulatorio delle proprie storie per poter sopravvivere, era, rinato sorprendentemente in piena epoca di avanguardie, lo stile avvolgente e irresistibile di Shaharazad nelle Mille e una notte.
Perché la Blixen fu davvero nella letteratura del secolo scorso una Shaharazad estranea a scuole e correnti, che non si curava di teorie e di sistemi letterari, convinta come era che le uniche verità che potevano essere accessibili agli uomini erano quelle che loro potevano ricavare dal racconto delle proprie storie.
Per questo motivo un narratore se voleva essere tale doveva, oggi come ai tempi delle Mille e una notte, essere eternamente, inflessibilmente fedele ai suoi racconti, perché solo se lo fosse stato, solo se avesse messo al centro di ciò che scriveva, non le teorie o le ideologie di moda, ma la libera verità della sua immaginazione, avrebbe servito la storia che narrava, e sarebbe giunto così, dopo aver pronunciato l’ultima parola del suo racconto, a far ascoltare a chi lo avesse seguito l’unica voce che davvero da sempre conta: quella del silenzio.
Inutile aggiungere che questa voce del silenzio risuona più volte al termine di queste storie gotiche, e forse tocca il suo apice nel finale della prima, indimenticabile narrazione, quel “Diluvio a Norderney” che Orson Welles, lettore innamorato della Blixen, non riuscì mai a portare sul grande schermo.
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(14/04/2005)
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