Quel giorno in realtà non era vicino, e la produzione potenziale di bioetanolo (alcool) è sì illimitata, ma difficilmente sostenibile. A parte questo, Ford era stato un eccellente profeta: a leggere quelle parole, si potrebbe confonderle con una dichiarazione dei giorni nostri, dallo stile appena retrò. E’ passato un secolo. Era difficile chiedere a Ford di prevedere anche il riscaldamento globale e la sovrappopolazione.
Nonostante gli interessi in gioco, tutti gli analisti, e ormai anche gli industriali, concedono che il petrolio stia per raggiungere il suo picco produttivo, e che entro breve non sarà più in grado di sostenere la domanda di energia sempre crescente. L’imminenza di questo picco viene spostata avanti o indietro negli anni a seconda delle frequentazioni dell’una o dell’altra agenzia di valutazione, ma ormai il fatto è chiaro: bisogna trovare una fonte energetica alternativa.
L’Unione Europea, dimostrandosi il più ricettivo fra i grandi attori globali, ha stabilito diversi mesi fa che entro il 2020 il 10% dei carburanti consumati nel suo territorio dovranno essere di origine vegetale. Questa norma, oltre a rappresentare un primo passo nella sostituzione del petrolio, vuole affrontare l’altra grande sfida ambientale legata all’energia: il contenimento del riscaldamento globale.
Eppure venti giorni fa la stessa Unione Europea ha fatto una parziale marcia indietro: molti biocarburanti fanno più male che bene alla Terra e se ne vieta la commercializzazione sul territorio, a esclusione di quei (pochi) produttori che avranno saputo garantirsi un certificato di sostenibilità ambientale. Dunque? Dunque è stata la stessa Unione ad ammettere che grande è la confusione sotto il cielo, e che si erano sottovalutati gli effetti collaterali della produzione di biocarburanti.
Proviamo a fare un po’ d’ordine. Due sono le questioni di fondo, che vengono rilanciate anche in questi giorni: la sostenibilità ambientale e quella sociale.
Innanzitutto non è vero che i biocarburanti risultino sempre e comunque meno inquinanti: il saldo delle emissioni di CO2 rischia in molti casi di essere negativo. Per ampliare la produzione di biodiesel e bioetanolo è necessario adibire nuovi campi alla coltivazione delle biomasse da lavorare. Per farlo si ricorre al disboscamento di foreste preesistenti, o alla conversione di praterie, col risultato di abbattere altri alberi o rovinare terreni che oggi impriogionano CO2.
Bisogna poi distinguere fra le diverse fonti vegetali. Una biomassa come il mais comporta una lavorazione problematica: scarsa efficienza energetica del processo di produzione, scarsa produttività per ettaro, cui consegue anche un ecessivo dispendio di risorse idriche. Ovvero troppa energia necessaria alla lavorazione, troppa terra da utilizzare, troppa acqua da consumare. Al contrario l’etanolo prodotto attraverso la canna da zucchero esibisce rese molto migliori in tutti questi settori. Da qui la necessità di distinguere fra le tante biomasse utilizzabili. Eppure anche questa coltura genera un debito di 17 anni di emissioni di CO2, quando si adibiscano nuovi terreni a questa lavorazione.
Naturalmente c’è la possibilità di convertire coltivazioni già esistenti alla produzione di biocarburanti, anziché creare dal nulla nuovi terreni agricoli. E’ un’opzione che si è già sperimentata, per esempio nel caso del mais. E l’effetto è perverso: anche ammettendo che queste operazioni siano sufficienti a soddisfare la domanda energetica globale, il risultato è stato di sottrarre questi terreni a precedenti coltivazioni a scopo alimentare, facendo così decollare i prezzi di diversi cibi.
Ma i costi sociali non si limitano all’alimentazione. In Indonesia alcune organizzazioni umanitarie hanno elaborato un documento che si oppone agli obiettivi fissati dall’Unione Europea in materia di biocarburanti: i diritti umani di diverse popolazioni indigene, che vedono devastati gli ecosistemi in cui vivono, sono messi a rischio dalla crescente domanda di olio di palma, un’altra biomassa. Altre Ong si sono invece occupate dei diritti di tanti piccoli coltivatori delle fasce tropicali (dove si possono produrre i biocarburanti più efficienti), che sarebbero costretti a cedere per pochi soldi i loro terreni e verrebbero poi sfruttati come braccianti dalle multinazionali.
Cosa resta allora della parabola dei biocarburanti? Studi e rivendicazioni di questi ultimi tempi stanno erodendo il piedistallo dell’ultimo ritrovato (para)ambientalista, sconfessando due opposte e complementari narrazioni: quella ufficiale dei biocarburanti come riscatto da tutte le sporcizie del petrolio, e quella ufficiosa che li vede come una nuova opportunità di arricchimento. Oro verde, lo chiamano.
Il dibattito continuerà a lungo. Nuove speranze più o meno motivate (biocarburanti dagli scarti agricoli o dalle alghe) dovranno sconfessare le perplessità crescenti. Una disputa viva e, in diversi casi, ben intenzionata, che però ha un’ultima responsabilità, quella di fare da manto al tema dell’efficienza e del risparmio energetico. Ripensare alle abitudini di consumo delle società avanzate, diminuire, per esempio, l’uso dell’automobile. Ecco qualcosa a cui nemmeno la lungimiranza di Ford era arrivata.
12 Febbraio 2008 - Scrivi un commento