Gli anni Settanta hanno costituito per i cosiddetti Paesi in via di sviluppo un frangente particolarmente propizio. Il mondo occidentale, non sapendo dove piazzare i petrodollari di cui abbondava, decise, camuffando l’atto da aiuto allo sviluppo, di dirottare in Africa e America Latina, sottoforma di investimenti, quell’abbondanza di capitali.
Qual era l’obiettivo?
Sostanzialmente si trattava di un progetto a due fasi. Nella prima gli investitori occidentali avrebbero rimpolpato le economie dei paesi, diciamo, africani pianificando un percorso che, nella seconda fase, li avrebbe visti protagonisti autonomi sulla scena economica internazionale.
Peccato che quei Paesi così generosamente finanziati quella seconda fase non l’abbiano vista mai semplicemente perché quei finanziamenti, spacciati per dono, non erano a fondo perduto, tantomeno a titolo gratuito. Le forti somme erano in realtà niente altro che prestiti che andavano rimessi aggravati da forti interessi.
Lo scoppio di quella che è conosciuta come la crisi del debito, partita dal Messico nel 1982 e dilagata a macchia d’olio in tutti i Paesi che negli anni Settanta avevano, si fa per dire, goduto di quell’iniezione di capitali, ha fornito l’assist a quella Triade per mettere fattivamente sul campo quella che a parer loro sarebbe stata la soluzione del problema: i piani di aggiustamento strutturale. Altro non era che il velleitario e presuntuoso (oltre che pretestuoso) tentativo di inoculare il germe del neoliberismo in Paesi che, semplicemente, non erano in grado di supportare i meccanismi necessari al suo compimento.
Tutto questo ha prodotto gli effetti che conosciamo oggi: Paesi sempre più sprofondati nel debito, incapaci di fornire la giusta alimentazione alle proprie popolazioni dal momento che, per recuperare i fondi necessari a pagare i prestiti di cui sopra, finiscono per esportare anche quello che dovrebbe essere necessario al sostentamento interno. Quella che doveva essere la panacea del male, si è rivelata in realtà l’inoculazione di un virus letale, in barba alle roboanti dichiarazioni sull’abbattimento del debito, alle maratone di beneficienza, ai piagnistei ed ai mea culpa internazionali.
In Tanzania, ad esempio, prima di quegli anni Ottanta, il governo offriva costante assistenza ai piccoli agricoltori attraverso i sussidi, la ricerca, i trasporti. Stessa cosa avveniva nello Zimbabwe che offriva sussidi per le sementi, abbuoni fiscali e gli strumenti necessari ai piccoli agricoltori.
I paesi africani, poi, applicavano alti dazi doganali all’importazione di mais, riso e altre granaglie ad uso alimentare proprio per proteggere dalla concorrenza sleale i piccoli e medi agricoltori. Inoltre in molti Stati si favoriva la creazione di cooperative.
Queste misure tra il 1950 ed il 1980 hanno fatto sì che quei piccoli e medi agricoltori fossero sufficienti al sostentamento interno dei loro Paesi senza nascondere poi il fatto che fino alla fine degli anni Settanta l’intero continente era esportatore netto di prodotti alimentari non processati.
La Tanzania, ad esempio, tra il 1961 ed il 1970 aveva la quota più alta di produzione alimentare che aumentava annualmente del 7%, il Kenya del 5%.
Il neoliberismo ha però invertito queste rotte, in molti casi ha addirittura stravolto l’assetto agricolo dei Paesi, inducendoli a sostituire le coltivazioni sulla base delle necessità degli Stati Uniti o dell’Europa. La Comunità europea, ad esempio, ha fatto del concetto di “diversificazione della produzione” uno dei cavalli di battaglia nella duplicità della politica commerciale e della cooperazione allo sviluppo in quella specifica sezione in cui entrambe si intersecano.
Durante gli anni Novanta, la Parmalat si installò in Sudafrica includendo nel suo gruppo due industrie lattiere locali, la Bonnita e la Towercop, mettendo in campo una vera e propria strategia di guerra che ha introdotto nel Paese i prodotti dell’impero Tanzi a prezzi stracciati decretando in questo modo la fine dei piccoli competitori.
Questo è quello che è sostanzialmente successo con l’abbattimento dei dazi voluto dai programmi di aggiustamento strutturale. Le multinazionali occidentali hanno inondato i mercati del terzo mondo costringendo la produzione locale a soccombere sotto il peso della competizione dei prodotti stranieri. I piccoli agricoltori, privi di protezione e senza sussidi, scacciati dalle loro terre a beneficio delle multinazionali, non sono più in grado di garantire la sufficienza alimentare, mentre l’occidente sguazza nell’Eldorado che la shockeconomy friedmaniana ha fatto sgorgare dalle vene aperte dell’Africa e dell’America Latina.
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