Documento estratto da una lettera delle autorità scientifiche a Cianciullo

Tale documento, estratto da una lettera delle autorità scientifiche a Cianciullo, giornalista di Repubblica, a seguito del suo articolo “Il Corallo nel mondo” del 24.09.2009, spiega con chiarezza la sostanziale differenza tra le barriere coralline e il corallo utilizzato nelle lavorazioni (Mediterraneo e Pacifico) e di conseguenza la confusione generata da molti media sull’argomento.

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Leggiamo con un po’ di stupore il suo articolo riguardante il corallo, apparso su Repubblica di oggi, a causa delle numerose imprecisioni, secondo noi piuttosto gravi, in esso contenute. Dato il nostro ruolo di ricercatori ci sentiamo in dovere, qui di seguito, di fargliele notare.

Il primo problema dell’articolo è una confusione sul termine “corallo” che deriva dal significato molto generale riferito a tutti gli cnidari ramificati che gli anglosassoni attribuiscono a questo termine (coral).

La lingua italiana è, al contrario, particolarmente precisa attribuendo esclusivamente il termine corallo alle specie (meno di 10) del genere Corallium viventi sia in Mediterraneo che nell’Oceano Pacifico. Al contrario gli cnidari a scheletro calcificato costruttori di barriere e atolli, in una fascia latitudinale compresa tra 20 ° Nord e 20 ° Sud (alcune centinaia di specie), si chiamano, nella nostra lingua, madrepore.

L’articolo confonde clamorosamente questi due gruppi che hanno morfologie, richieste ecologiche e problemi di conservazione del tutto differenti nella figura intitolata IL CORALLO NEL MONDO che mostra la distribuzione delle madrepore e non del corallo e nella conclusione del pezzo principale dove si parla di distruzione delle barriere causata del riscaldamento globale: un problema, ancora una volta, riguardante esclusivamente le madrepore.

Anche nei punti in cui l’articolo si riferisce correttamente al corallo del Mediterraneo (Corallium rubrum) i punti inesatti sono molti. Mentre è vero che la pesca del corallo necessita di una regolamentazione visto che la consistenza delle popolazioni è in calo in alcune zone del Mediterraneo (ma in altre sembra stabile o addirittura in aumento) è certamente falsa l’immagine della caccia all’ultimo frammento attuata con ogni mezzo che l’articolo fa passare (caccia sempre più affannosa ad un oggetto che sta diventando introvabile). Su molti banchi profondi si pesca tuttora corallo di grande taglia e ottima qualità. Se lei avesse ragione il problema sarebbe risolto da se: infatti nessuno si impegnerebbe in un lavoro molto faticoso, estremamente rischioso e molto costoso da un punto di vista logistico se non avesse un ritorno economico. I “rametti di pochi centimetri” di cui si parla nel suo articolo non hanno nessun valore commerciale, l’industria acquista e lavora esclusivamente rami con un diametro di una certa consistenza.

Un altro errore assolutamente grossolano riguarda l’incredibile dato secondo il quale nel nostro mare sarebbe andato perduto il 90% delle colonie riproduttive. Il corallo è una specie che si riproduce molto precocemente,quando le colonie sono alte 2-3 cm, e in alcune popolazioni italiane queste colonie sono presenti con densità che raggiungono 1000 colonie/mq formando un tappeto di corallo. Queste popolazioni garantiscono, al di là di ogni possibile dubbio, che la specie non corre nessun pericolo di estinzione si trovano a profondità modeste (30-40 m) come può testimoniare ogni subacqueo ricreativo che si sia immerso a Portofino, Calafuria o in un gran numero di siti di immersione nel Tirreno.

Comunque è evidentemente saggio e previdente indicare per la specie, oggetto di pesca da millenni, una serie di misure di conservazione dato che, mentre conosciamo molto bene le caratteristiche dei banchi superficiali, pochi dati sono disponibili per quelli profondi dai quali si ricava la maggior parte del corallo commerciale. Il suo articolo fa riferimento all’ingegno, l’attrezzo trainato che tradizionalmente è stato utilizzato per la pesca del corallo. Certamente questo mezzo di pesca è altamente distruttivo ma il divieto del suo utilizzo attuato dagli anni ’90 da tutti i paesi del Mediterraneo dovrebbe essere valutato come un successo delle politiche conservazionistiche che si attuano nei nostri paesi. Come sempre c’è spazio per miglioramenti e la legge sarda riguardante la pesca del corallo rappresenta un modello che deve essere esportato in tutti i paesi del Mediterraneo. Il workshop attualmente in svolgimento a Napoli e dedicato a questo argomento sta esattamente suggerendo l’allargamento di queste misure a tutti i paesi del bacino. Entrando più nello specifico della richiesta USA di inserire il corallo nell’appendice II della lista CITES, il problema attualmente dibattuto è se questa richiesta sia una misura sufficiente a garantire la protezione della risorsa o non piuttosto un aggravio burocratico che potrebbe non portare ad un effettivo miglioramento nella conservazione della specie.

Per quel che riguarda il nutrito gruppo di ricercatori qui presenti non c’è nessuna volontà di una contrapposizione con gli statunitensi ma solo la volontà di cercare i mezzi migliori per garantire la corretta gestione di una risorsa che rappresenta una delle meraviglie dell’ambiente marino ma che contemporaneamente è fonte di reddito per migliaia di persone oltre a rappresentare la materia prima di uno di quelle attività artigianali di altissima qualità per cui il nostro paese va giustamente famoso.

Restiamo a sua disposizione per qualunque chiarimento e la salutiamo molto cordialmente

Giorgio Bavestrello, Università Politecnico delle Marche

Riccardo Cattaneo-Vietti, Università di Genova

Marco Abbiati, Università di Bologna

Giovanni Santangelo, Università di Pisa

Roberto Sandulli, Università di Napoli “Parthenope”

Ilaria Vielmini, Università di Pisa

Lorenzo Bramanti, Università di Pisa

Federica Costantini, Università di Bologna

Vincenza Mastascusa, Università di Napoli “Parthenope”

LuisaSbrescia, Università di Napoli “Parthenope”

2 Dicembre 2009 - Scrivi un commento
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