Lo storico spesso si trova davanti ad un dilemma di difficile soluzione: dove sta la verità?
Gli studi e le analisi portano sempre a confrontarsi con scuole di pensiero che affondano le proprie convinzioni su argomentazioni che seguono un filo logico differente. A volte l’affiliazione dipende da presupposti ideologici, da convinzioni politiche profonde; altre volte da chi finanzia quella ricerca. Insomma, pur sforzandosi di risultare imparziali quasi sempre si intuisce fra le righe che da qualche parte si deve pur stare. Poveri quelli, come me, che cercano di assumere quei punti di vista considerati “dalla parte sbagliata”, ovvero gli argomenti dei poveri, di quelli che non fanno business. La carne da cannone, per intenderci.
Di questa carne da cannone la storia ne ha avuta tanta. Di questo sottile gioco del forte che schiaccia il debole, questa costante e spericolata corsa del topo per difendersi dalle grinfie del gatto la storia è zeppa, ma mentre di gatti i manuali abbondano, i topi restano mestamente rilegati sullo sfondo nell’attesa che l’occhio attento riesca a scrutarli e farli emergere.
Questa non vuole essere una riflessione farcita di filosofia spiccia, ma un modo per introdurre un’analisi su come le gigantografie del commercio mondiale, si abbattono inesorabilmente su quelli che rappresentano il motore stesso di quel carrozzone iniquo. I lavoratori, quelli che Frantz Fanon chiamava i dannati della terra, i nuovi schiavi, quelli cui tocca portare la croce del progresso. I topi, di cui sopra.
Quando i dannati della terra decidono di essere stati troppo tempo con la faccia nel fango e la sollevano per guardare in faccia chi tiene loro lo stivale sopra il collo, allora, kafkianamente, sono meno topi, si trasformano. Addirittura, diventano pericolosi perché pretendono i loro diritti.
Ma questi diritti, dannazione, sono d’intralcio agli interessi dell’azienda. Non si può. Costano troppo.
Questo è un punto di vista.
L’azienda ci teneva, però, a fornire una versione diversa dei fatti. Attraverso il suo vice-presidente dell’Area Sud Europa, Paolo Prudenzati, il Brand ha spiegato di essere stato costretto a pagare i paramilitari per proteggere la vita stessa dei lavoratori e soprattutto garantire la sicurezza delle piantagioni in un momento in cui le rapine e gli omicidi erano frequenti e le autorità governative non erano in grado di assolvere quel compito.
È curioso, anzi, raccapricciante che si voglia proteggere la propria forza lavoro assoldando mercenari che la massacrano. C’è qualcosa che non torna.
Il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti, patria di provenienza della Multinazionale e per questo soggetta alle sue leggi, infatti, non ha accolto la debole giustificazione della Chiquita e nel 2007, condannandola al pagamento di 25 milioni di dollari per quelle infrazioni, ha affermato che “il finanziamento di organizzazioni terroristiche non può mai considerarsi come costi per business”, come Chiquita invece aveva cercato di fare passare quei pagamenti.
La farsa si è presto esaurita nel grottesco.
Per uscire meno infangata possibile da questa situazione, nel 2004 Chiquita ha venduto le proprie piantagioni colombiane, d’accordo con l’Unione globale dei lavoratori nel settore alimentare e delle banane, Iuf e Colsiba. I terreni sono stati acquistati da Banacol, non meno sporca della Chiquita, che ha garantito di non toccare i contratti collettivi. Queste condizioni di facciata, però, nascondono una realtà squallida e triste per coloro che in quelle piantagioni ci lavorano e, spesso e volentieri, ci muoiono.
Le condizioni di lavoro sono in aperta violazione tanto dei diritti dei lavoratori – scarsamente protetti dal punto di vista sindacale, soggetti ad ogni sorta di sopruso e sfruttati fino allo sfiancamento – quanto in senso più ampio dei diritti umani.
Non dovrebbe però sorprendere che la Chiquita non sia poi tanto 10 e lode.
La sua origine è infatti quella della tristemente nota United Fruit Company, entrata nel commercio delle banane agli inizi del Novecento. Negli anni Venti la compagnia deteneva in Honduras qualcosa come 263.000 ettari di terreno, ovvero un quarto della terra coltivabile del Paese e controllava strade e ferrovie, sgomitando a forza di collusioni e corruzioni con gli organi politici e militari honduregni.
Le sue attività extra commerciali le hanno valso il nome di “El pulpo”, per quella ramificazione tentacolare trasversale a tutti i settori della vita delle Repubbliche centro americane in cui il Brand ha le proprie attività.
Nel 1954 la Ufc appoggiò il golpe ordito dalla Cia ai danni del Presidente del Guatemala Jacobo Arbenz, reo di aver espropriato i terreni della multinazionale per darli ai contadini senza terra; nel 1961 prestò le proprie imbarcazioni agli esuli cubani spalleggiati dalla Cia per tentare di rovesciare Fidel Castro a Playa Girón.
Quella delle multinazionali degli alimenti, in America Latina, è una vera schiavizzazione degli operai. Abbiamo fatto l’esempio della Chiquita in Colombia, un fatto che risale ormai a tre anni fa, ma ugualmente potremmo riferirci ai bananeros nicaraguensi, ammalatisi a causa dei pesticidi disseminati nelle piantagioni bananiere dei dipartimenti occidentali nicaraguensi di Chinandega e Leon negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Ma se la beffa spesso viaggia sulla canna del fucile, non disdegna tuttavia di aggirarsi anche tra i banchi dei Tribunali. Nell’aprile di quest’anno, infatti, il Giudice di Los Angeles Victoria G. Chaney, ha rifiutato di accogliere le richieste di risarcimento presentate, che fino ad allora erano invece state accolte, ed annullato un giudizio in corso sostenendo la falsità delle prove e dei documenti presentati dagli avvocati nicaraguensi.
Di più, ha avvertito che avrebbe aperto un’inchiesta per perseguire penalmente coloro i quali hanno presentato la richiesta di risarcimento, raccomandando agli altri tribunali che hanno a che fare con casi simili di astenersi dall’accettare come prove documenti, specialmente certificati medici emessi o sentenze, adducendo il rischio di una vera e propria manovra estorsiva in cui è coinvolto il corrotto sistema giudiziario nicaraguense.
Di storie come queste l’America Latina è piena, di soprusi come questi il mondo intero ne scoppia eppure il concetto di schiavitù sembra essersi dissolto col tempo e nel tempo. Guardare alla storia con occhi diversi, accettando di vedere il mondo da una prospettiva dal basso, ci fa capire come quel concetto non è mai caduto di moda e che i nuovi schiavi esistono: sono donne, bambini, uomini annichiliti, abbrutiti dalle violenze subite, scippati delle loro terre, spesso della loro dignità; i bambini della loro infanzia per una cosa, il progresso, faccia di Giano, che in occidente brilla e nel terzo mondo puzza.
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