L’esperienza individuale di una di queste persone è divenuta oggi il filo conduttore di un libro in cui la narrazione del proprio percorso si affianca alla sua relazione con l’esterno, generando riflessioni il cui orizzonte si allarga spesso fino a coinvolgere la scala planetaria. Il libro delinea così il ritratto, visto da lontano ma non troppo, di un mondo frenetico, distruttivo e autodistruttivo (“il loro mondo”), e il diario a posteriori delle tappe di un’esperienza che può ben vedersi come il primo passo per il superamento di esso.
Tutto comincia nella primavera del 1996 quando Filippo Schillaci, tecnico informatico presso un ateneo romano, lascia il suo appartamento e va a vivere in campagna, in quei “1000 metri quadri di pianeta Terra” che sono ormai da anni la sua casa, la sua scuola di “contatto col mondo reale” e anche l’osservatorio che gli offre la giusta distanza da cui guardare “quel loro mondo” che da ogni parte lo circonda. Esteriormente non è altro che un “cambiar casa” ma diviene in breve tempo molto di più: diviene un cambiar vita, liberandone fette sempre più ampie dalla totale dipendenza dal mondo delle merci, e dunque dal denaro.
L’autore non abbandona del tutto la propria convenzionale attività retribuita ma vi affianca l’autoproduzione di beni di uso quotidiano; impara a coltivare un orto, a curare gli alberi da frutto, poi a raccogliere e usare l’acqua piovana, a costruire e riparare da sé semplici oggetti o anche parti della casa.
“È una sorta di diario di viaggio”, scrive nel Prologo, “ma anche una discussione sulla concreta possibilità per ognuno di migliorare il proprio stile di vita qui e adesso, senza impegnarsi necessariamente in «ardimentose» avventure alternative bensì semplicemente mutando la propria percezione di alcuni concetti chiave della vita di ogni giorno: benessere, divertimento, lavoro, tempo libero. E mutando di conseguenza le proprie scelte in ciascuno di tali campi”.
E’ un libro di esperienze, e per scriverle l’autore si è messo in viaggio: dall’Emilia, dove ha visitato una delle prime case passive italiane, alla Sicilia, dove ha visto e descritto le realizzazioni di un tecnico esperto in energia solare.
Dietro questa attenzione alle realizzazioni concrete, c’è la convinzione, mai esplicitamente proclamata ma sempre avvertibile nelle pagine del libro, che la Decrescita sia un pensiero positivo che miri a costruire, realizzare. E’ in funzione di questo spirito che chi sostiene la Decrescita opera le sue scelte: verso il più leggero, il più piccolo, il più duraturo, il più mite.
Ma ogni scelta implica il prendere le distanze da ciò che la nega, assumendo così a uno sguardo superficiale l’apparenza di un no, quell’apparenza su cui “stranamente” si concentra in maniera esclusiva l’attenzione dei critici. Questo è dunque un libro che enuncia dei sì: sì a un certo modo di produrre i beni, di usare il proprio tempo, sì a un’organizzazione sociale comunitaria e solidale, sì a certi modi di produrre e di risparmiare energia. Ma è, proprio per questo, un libro che enuncia anche i suoi conseguenziali no.
Ecco dunque che la scelta di vivere un rapporto diretto con il mondo reale implica il rifiuto di una società che rinchiude sempre di più l’individuo nel bozzolo di un immaginario alienante e mistificatorio, così come il desiderio di autodeterminazione produttiva implica il rifiuto dell’industrializzazione forzata di ogni attività e la conseguente concentrazione della produzione in strutture di grosse dimensioni prive di qualsiasi rapporto con le realtà locali.
Un intero capitolo (Cosa non autoprodurre) è dedicato ad un argomento su cui abitualmente si sorvola nonostante sia una delle maggiori cause di devastazione ambientale a livello mondiale: la carne, ovvero l’alimento per eccellenza della società della crescita. E comincia confutando un equivoco estremamente diffuso: che la cosa più importante nelle scelte alimentari sia mangiare cibo locale.
Il dispendio energetico legato alle “filiere” alimentari è dovuto in gran parte alla produzione, non al trasporto; l’alimento la cui produzione richiede le maggiori quantità di energia, provocando le maggiori devastazioni ambientali è proprio la carne. Un alimento, oltre tutto, di cui possiamo tranquillamente fare a meno senza dover per questo rinunciare ai piaceri della tavola.
Un’altra idea, questa volta esplicitamente sostenuta, è che un diverso modo di fare debba venir accompagnato da un diverso modo di essere, idea che emerge ripetutamente dalle pagine del libro a cui viene dedicato uno dei capitoli cruciali: Cosa non ri-produrre. C’è qualcosa che dobbiamo guardarci dal portare in valigia nel viaggio che ci conduce dal “loro mondo” al “nostro altro mondo possibile” ed è quel modo di essere nato per giustificare il fare della società della crescita.
E’ la cultura della separazione fra uomo e natura, la cultura del dominio del primo sulla seconda, in una parola l’antropocentrismo, di cui l’autore ripercorre la genesi attraverso un ideale viaggio nel tempo e ne prospetta il superamento, verso il recupero di una visione dell’uomo come parte armonica delle comunità viventi della Terra.
Solo in una società umana che ha rimosso dal suo immaginario il tumorale mito antropocentrico l’insieme di pratiche alternative e sostenibili che la Decrescita promuove può attecchire come una prassi naturale piuttosto che esser visto come un ripiego posticcio, una costrizione da attuare a denti stretti sotto la spinta del disastro ecologico globale.
Vivere la Decrescita
Nella primavera del 1996 filippo schillaci, tecnico informatico presso un ateneo romano, lascia il suo... Continua... |